La doppia vita di don Camillo. Compie settant’anni il film con Gino Cervi e Fernandel.

La trasposizione cinematografica del romanzo di Guareschi non fu semplice perché ne andava dell’identità del popolo italiano da ricostruire nel decennio dopo la guerra. Frank Capra, grande estimatore del libro, avrebbe voluto dirigere un suo film con Spencer Tracy nei panni di don Camillo. Ma dovette rinunciare per il sovrapporsi di impegni con la Paramount

 Marco Sampognaro

Un film che scontentò tutti, un film che conquistò tutti. Compie settant’anni il Don Camillo cinematografico di Julien Duvivier, quello con Fernandel nella parte del pretone della Bassa e Gino Cervi nelle vesti del sindaco comunista Peppone. La prima proiezione si svolse il 15 marzo 1952 e la ricorrenza diventa occasione per ripercorrere un pezzo di storia della cultura italiana che torna a colorarsi di sanguinosa e inaspettata attualità, con il riapparire di blocchi contrapposti, di armi e carri armati, di speranze di pace.

«La trasposizione cinematografica di Don Camillo non fu affatto semplice né lineare: ne andava dell’identità del popolo italiano da ricostruire nel decennio dopo la guerra», spiega Raffaele Chiarulli, assegnista di ricerca dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Chiarulli ha dedicato al primo film di Don Camillo uno studio approfondito, in corso di pubblicazione per Interlinea in un volume curato da Ermanno Paccagnini e Daniela Tonolini. «I racconti di Guareschi furono pubblicati a partire dalla fine del 1946 e, visto il successo travolgente, ancor prima di essere raccolti in un libro si iniziò a pensare di trarne un film. A occuparsi dell’adattamento furono Angelo Rizzoli, editore di Guareschi, e Peppino Amato. La sceneggiatura ebbe varie stesure e il tutto prese una forma compiuta quando si firmò un accordo di produzione italo-francese e gli autori effettivi del film furono lo scrittore René Barjavel e il regista Julien Duvivier». I problemi, però, erano appena iniziati.

Infatti, «mentre per i produttori era ovvio che il film dovesse essere un prodotto commerciale che piacesse al più largo pubblico possibile (“tanto a De Gasperi quanto a Togliatti,” per usare le parole di Peppino Amato), per tutti gli altri attori in gioco — il Partito Comunista Italiano, la Democrazia Cristiana, la Chiesa italiana, l’autore — si trattava di uno strumento che dovesse servire una causa in particolare». Ognuno si sentì in dovere — e anche in diritto, in base ai contratti — di dire la sua su come il film dovesse essere. «La forma definitiva, soprattutto per quello che riguarda la storia, il plot, si deve a un lungo lavoro di negoziazione tra sceneggiatore, regista, produttori, Guareschi stesso, censura governativa e assistente ecclesiastico, una figura che doveva assicurarsi che il film potesse essere proiettato nelle sale parrocchiali. Rizzoli e Amato ascoltarono tutti e si mossero con lucidità e lungimiranza, difendendo le ragioni del film non per se stesse, ma per realizzare un prodotto che avesse un autentico respiro universale, al pari dei film del cinema americano classico».

Nello studio di Chiarulli emergono dettagli gustosi. «Praticamente ogni scena del film venne girata due volte, in italiano e in francese, per le differenze di mercato ma anche di censura. Dalla versione italiana sparisce un dialogo tra don Camillo e la statua della Madonna, che per la Chiesa italiana dei primi anni Cinquanta sembrava inopportuno. Compare invece uno scambio di battute tra due personaggi (La Gina e Mariolino) che. nel mezzo di un drammatico sciopero dei braccianti agricoli, stempera la tensione, agognando un mondo migliore privo di conflitti alla portata degli uomini di buona volontà. Sicuramente una aggiunta in linea con i desiderata democristiani del periodo, che nel frattempo avevano messo un freno al pessimismo dei film neorealisti, per voce del sottosegretario con delega allo spettacolo Giulio Andreotti».

E Guareschi? «Si sentì sempre tradito da questo adattamento. Espresse le sue perplessità per ognuna delle modifiche apportate al contenuto dei racconti e non digerì mai il fatto che i produttori finsero di ascoltarlo ma poi fecero sempre di testa loro. I produttori difesero con le unghie e con i denti il bene del film in quanto tale, per confezionare un prodotto che potesse avere successo dappertutto. I fatti, cioè gli incassi internazionali e soprattutto la longevità del film, a distanza di settant’anni dà loro ragione. L’unica cosa su cui Guareschi cambiò idea fu la scelta degli attori. Fernandel era diversissimo fisionomicamente dal personaggio letterario ma lo scrittore ci si abituò, fino a dire che non avrebbe più potuto immaginare don Camillo senza la faccia dell’attore francese».

Ma c’è anche una storia parallela, un film mai realizzato. Un grande estimatore di Don Camillo fu Frank Capra, e nell’archivio Guareschi di Roncole Verdi sono conservate due lettere del grande cineasta italoamericano. «Questo libro — scrive nella prima — contiene un tale umorismo, un tale messaggio di calda umanità e di speranza per un mondo turbato, che deve essere trasformato in film e donato al mondo; e io sarei molto onorato di essere il regista di quel film». Il sogno dura poco: nella seconda lettera il cineasta è costretto con dispiacere a declinare l’invito, per il sovrapporsi di impegni già presi con la casa cinematografica Paramount. «L’adattamento dai racconti di Guareschi diretto da Frank Capra, con Spencer Tracy nel ruolo di don Camillo, restò uno dei tanti film pensati ma mai fatti che costellano la storia di Hollywood», chiosa Chiarulli. Alla domanda se, infine, «è meglio il libro o è meglio il film», Chiarulli risponde con un’immagine sintetica, e poetica, coniata dal biografo di Guareschi Guido Conti: «Lo scrittore coglie una verità dalla terra, scrive racconti, il cinema lo porta sullo schermo influenzando il pubblico, e quella verità ritorna alla terra ancora più rafforzata nell’immaginario e nella sua autenticità». E può essere riscoperta oggi.