1.- Nel settembre1972, in un rapporto per il Ministero del Bilancio, Pasquale Saraceno prevedeva che il divario tra Nord e Sud si sarebbe colmato solo nel 2020. L’analisi sembrò alquanto pessimistica ma alla luce dei fatti e, soprattutto oggi che siamo nel 2020, bisogna riconoscere che il grande studioso del Mezzogiorno non si era sbagliato almeno nel senso implicito all’indicazione che sarebbe stato necessario un ‘tempo infinito’ per vedere un’Italia unità nei processi di sviluppo ed un Mezzogiorno finalmente affrancato dalle vecchie condizioni di arretratezza.

Ora, proprio nel 2020, lo tsunami del Covid-19 che ci ha investito induce a credere che una pietra tombale possa cadere sulla speranza di rinascita per le aree depresse del Mezzogiorno. Solo che, al contempo e viceversa, bisogna riconoscere che, a seguito di scelte lungimiranti e di azioni coerenti, un’occasione storica si presenta per avviare finalmente la partenza di un nuovo modello di sviluppo capace di recuperare il ritardo accumulato dal Sud nei confronti del Nord. Del resto è ben noto che l’Italia tutta nei momenti più bui abbia saputo dimostrare di avere risorse morali e progettuali tali da permetterle di superare ostacoli enormi e rimettere in moto il sistema-Paese. Pensiamo al secondo dopoguerra ed a quello che siamo stati in grado di fare in tutti i settori economici: dall’industria al cinema, dalle grandi infrastrutture alla diffusione del made in Italy nel mondo.

Oggi dobbiamo avere la capacità di cogliere le condizioni di un rinnovato fermento economico, sociale, culturale. Soprattutto, noi meridionali che vogliamo che il Recovery Fund  diventi uno strumento per raggiungere un grande risultato dal punto di vista economico e sociale. Ma dobbiamo utilizzarlo per strategie e progetti validi, efficaci e credibili. Altrimenti si rischia l’ennesimo flop.

 

2.- Allora il punto è: come riempire di contenuti e di progettualità una “partenza nuova” per il Mezzogiorno soprattutto alla luce delle oggettive ingiustizie, in termini di investimenti pubblici, subite nel passato? Ovvero, come possiamo trasformare una situazione di svantaggio in una possibile condizione di vantaggio per il Sud d’Italia, anche alla luce del richiamo della Commissione Europea al nostro Paese di invertire la tendenza dei propri impieghi pubblici e garantire un adeguato livello di investimenti al Sud?

Partiamo dall’ottimistico presupposto che l’Italia sia in grado di elaborare una progettualità tale da permettere al sistema-paese di rispondere allo shock da pandemia con un Piano Nazionale di Ripresa nei vari settori strategici dell’alta velocità, della copertura diffusa della banda ultra-larga, del lavoro e del taglio delle tasse. Corriamo, comunque, il rischio che i Territori meno vitali, come il Mezzogiorno, non siano pronti, non abbiano la capacità di trarre alcun beneficio da un’azione nazionale di ripresa e continuino ad essere una pesante zavorra per il resto del Paese.

Per mettersi al passo, allora, occorre un impegno supplementare e bruciare le tappe. Bisogna, cioè, avviare velocemente il cammino verso quei passaggi obbligati che permettano di abbattere gli ostacoli invalicabili che da decenni e finora hanno impedito al Sud di affrancarsi da una condizione di sottosviluppo apparentemente ineluttabile.

Preciso subito che non intendo parlare delle barriere di natura economico-finanziaria o dell’insufficienza infrastrutturale -sia materiale che immateriale- o, ancora, del deficit di “capitale umano” che caratterizzano l’attuale situazione del Mezzogiorno. Piuttosto, come recentemente ha evidenziato nel secondo numero del 2020 l’Osservatorio Monetario dell’Università Cattolica diretto dal professore Angelo Baglioni, vorrei richiamare l’attenzione su tre quistioni istituzionali che attengono tutte alla governance e che, poiché non riguardano direttamente l’aspetto economico-finanziario, sono ampiamente trascurate. Mi riferisco a tre riforme che, se non realizzate in tempi brevi, potranno pregiudicare qualsiasi processo di sviluppo.

 

3.- La prima di queste tre quistioni riguarda la necessità di operare velocemente la riforma macroregionale che, purtroppo, al Sud -come sottolineava anche Claudio Signorile nel suo recente Appello per un “Mezzogiorno federato”- continua ad essere negletta. Quando, invece, costituisce la nuova politica strategica dell’Unione Europea. E in Italia le regioni del Nord si sono già da tempo organizzate nella Macroregione Adriatico-Jonica (EUSAIR) e nella Macroregione Alpina (EUSALP).

Ora, non è possibile continuare a pensare che il riscatto del Mezzogiorno possa essere perseguito con i vecchi arnesi delle regioni. Autoreferenziali e centralistiche più dei vecchi stati nazionali. Se i governatori ed i politici del Mezzogiorno non sapranno coordinarsi tra di loro (secondo le regole dell’UE) per elaborare una strategia unitaria non solo non c’è speranza di poter resistere all’attacco già sferrato dagli interessi forti del Nord per destinare i soldi europei “all’Italia che produce” e che costituisce la “locomotiva” (in verità, da quasi un ventennio, ferma) del Paese ma assisteremo, ancora una volta, nelle regioni meridionali, ad un impiego di queste risorse nel modo individualistico e clientelare che ha portato all’attuale disastro.

In altri termini, non si tratta di costruire elenchi di opere infrastrutturali da contrapporre a quelle del Nord. I responsabili delle politiche regionali del Mezzogiorno, invece, dovranno saper elaborare e definire delle linee politiche innovative e ciò non solo nei contenuti degli investimenti rientranti nell’ambito dei “pilastri” indicati dal Consiglio Europeo -a) rafforzare la resilienza e la capacità e  il sistema sanitario; b) concentrarsi sulla transizione verde e digitale; c) migliorare l’efficienza del sistema giudiziario e l’efficacia della Pubblica Amministrazione- ma soprattutto nella metodologia di un Piano strategico macroregionale che si connoti, in ultimo, per la capacità di sapere coordinare la governance tra regioni, città metropolitane e province o (in Sicilia) liberi consorzi di Comuni.

 

4.- E qui siamo alla seconda quistione istituzionale che bisogna risolvere se si vuole dotare il Mezzogiorno degli ‘strumenti’ idonei a perseguire un nuovo modello di sviluppo. Infatti, non basta

una riforma regionale ma è necessario un cambiamento anche delle organizzazioni locali. Senza questa mutazione mancherà sempre il soggetto che dovrà attuare le politiche pubbliche innovative e il Recovery Plan si trasformerà in uno qualsiasi dei programmi europei che inevitabilmente falliranno l’occasione storica che abbiamo a disposizione.

Per evitare un tale esito, allora, bisogna puntare sulle Comunità locali. Non solo, però, come ricordava qualche tempo fa il sindaco di Milano, Beppe Sala, sulle città metropolitane -che ormai sono da considerare più come “città-universali” che come “città-stato”- ma anche sulle province (o, in Sicilia, liberi consorzi di comuni) che, nella loro aggregazione delle aree interne più ecologiche di quelle delle grandi città, avrebbero inoltre la capacità di dare risposta al problema forse più grave postoci dalla pandemia che ci ha colpiti. Peraltro, come è noto, la storia millenaria di questa nostra area mediterranea dimostra indiscutibilmente che il ruolo propulsivo dello sviluppo è stato sempre svolto dalle grandi città e dalle aggregazioni dei comuni. E poi il loro contributo sarebbe addirittura determinante al fine di attivare la partecipazione, a questa strategia di sviluppo, dei cittadini dei vari territori interessati, così contribuendo a colmare il deficit  democratico di cui soffrono non solo le istituzioni europee ma anche quelle nazionali.

A tal proposito è però da segnalare che mentre a livello nazionale e cioè con riferimento a tutte le regioni “ordinarie” del Paese comprese quelle continentali del Mezzogiorno, prima, si è fatta la riforma cd. “Delrio” ed, ora, si sta procedendo alla sua revisione in uno con la riscrittura del Testo Unico degli Enti Locali, in Sicilia, dopo la demenziale abolizione delle province regionali, il comparto delle amministrazioni ‘intermedie’ è in un regime straordinario di commissariamento che sta portando alla paralisi assoluta di tutto il sistema dei poteri locali.

Il tema è centrale ma in questa sede non può essere, certo, sviluppato.

 

5.- Infine, il terzo nodo da sciogliere, se si vuole realmente una inversione di tendenza nell’attuale contesto del Mezzogiorno, è quello della pubblica amministrazione che necessita di un radicale processo di sburocratizzazione e di rivoluzione culturale e tecnologica.

Diciamolo con franchezza, all’interno degli apparati pubblici soprattutto del Mezzogiorno esiste un gravissimo problema di competenze, che deriva da una selezione drogata fin dall’origine e dal cattivo funzionamento dei meccanismi di formazione e di aggiornamento. Al punto tale che, se si procedesse rapidamente con la digitalizzazione del sistema amministrativo e con la revisione delle procedure, i dipendenti pubblici, in particolare quelli del Mezzogiorno, non sarebbe in grado di padroneggiare la rete informatica nelle sue funzioni di base. Inoltre, si aggiunga che nel nostro Paese per chi opera nelle pubbliche amministrazioni è molto più conveniente stare fermi, non fare alcunché: l’inerzia infatti non comporta rischi e soprattutto è premiale in termini di avanzamenti di carriera, bonus, riconoscimenti. Non solo. Ma in un simile contesto la burocrazia si trova perfettamente a suo agio e sguazza felicemente nelle procedure farraginose, finendo con alimentare le occasioni di corruzione e di malaffare. E così, ancora una volta, ponendoci di fronte al problema di dover fare i conti con le troppe leggi, i troppi vincoli ed i farraginosi meccanismi fuori da ogni contesto che devono essere in qualche modo disciplinati e semplificati.

Insomma, il nodo della pubblica amministrazione resta assolutamente ingarbugliato e l’emergenza causata dal Covid-19 non sembra certo agevolare il suo scioglimento. Invece, è proprio questa eccezionale situazione  di emergenza che può rendere meno difficoltosa una riforma della P.A. che si incentri sulla introduzione del principio di responsabilità e in conseguenza di esso su quello di merito.

Naturalmente, si tratta di quistione assolutamente aperta che, però, non può continuare ad essere lasciata languire in particolare nel Mezzogiorno che, privo o scarso di altri ‘soggetti di sviluppo’, non può rinunciare a quello che potrebbe essere il suo più importante propulsore.

 

6.- Vengo alla conclusione. Dicendo che se si sciolgono questi tre nodi e si realizzano queste riforme inerenti la governance si avvierebbe senz’altro il processo del più grande cambiamento strutturale che si possa immaginare per il Sud e l’Italia intera. Si avvierebbe, cioè, la concretizzazione della trasformazione dell’Italia anche per quelle aree meridionali del Paese che finora sono rimaste più indietro o, addirittura, estranee ai processi di sviluppo ed invece ora, con l’adozione dei nuovi sistemi di governance cui si è accennato, potrebbe ergersi a protagoniste non solo del proprio sviluppo ma anche della rinascita dell’intero Paese, per non dire dell’Europa.

È, quindi, una partita decisiva quella che si gioca in ordine al  Recovery Plan, che non può essere considerato un pozzo dal quale “prendere i soldi e scappare” pensando di promuovere, prima, progetti assistenziali divisivi e frazionistici e, poi, distribuire fondi ‘a pioggia’ per l’acquisizione del consenso elettorale.

Si sprecherebbe la grande opportunità per correggere il sistema di distribuzione e utilizzazione delle risorse nei vari settori economico-sociali e nelle singole aree geografiche ed il Mezzogiorno, lungi dal divenire un protagonista nella nuova centralità del Mediterraneo, finirebbe per continuare ad essere una appendice fastidiosa dell’Italia e dell’Europa.