La lezione di Zaccagnini

Fu un errore.

L’articolo qui riproposto, senza modifiche, è stato pubblicato in occasione dei 100 anni dalla nascita del politico ravennate. 

Nel 1912 nasceva Benigno Zaccagnini. A cento anni da quella data, numerose sono state le occasioni per ricordare l’uomo politico che più di altri e con lucida determinazione ha saputo incarnare lo spirito di rinnovamento dei cattolici impegnati nella vita pubblica. Dopo la morte di Moro, si era convinto che il contributo dei democratici cristiani dovesse mirare al superamento della “democrazia bloccata” ed essere lievito, dunque, di una nuova dialettica tra riformisti di matrice socialista e riformisti di ispirazione cristiana. Era il disegno di un bipolarismo, ancora condizionato dalla pregiudiziale anticomunista, che doveva rompere le gabbie delle vecchie contrapposizioni ideologiche. Invece con l’avvento della cosiddetta Seconda Repubblica abbiamo conosciuto un bipolarismo ancora immaturo.

Ogni anniversario costituisce un’occasione per intrecciare nuovi pensieri tra passato e futuro. E’ uno stimolo a scrollarsi di dosso la pigrizia del quotidiano, quel senso di ripetizione che opacizza l’impegno politico. A cent’anni dalla nascita, Benigno Zaccagnini è presente davanti a noi con il suo esempio e la sua testimonianza di rettitudine, passione e generosità.

Come parlare di lui senza retorica e con precisione? Oggi si fa presto a ricordarne insieme la mitezza e la forza di uomo volutamente distante dalla ribalta, fino a quando le circostanze non glielo imposero. E’ stato il Giovanni XXIII della Democrazia Cristiana, il Papa laico del “rinnovamento democristiano” nelle istituzioni e nella società, l’interprete della politica del confronto – espressione del lessico moroteo – che doveva segnare il passaggio dal vecchio centro-sinistra alla stagione, breve e drammatica, della solidarietà nazionale. Aveva il carisma di chi non cerca il consenso, ma lo suscita man mano con la sincerità della parola e dell’azione.

“La vita di Zaccagnini, ha scritto Corrado Belci, può essere tradotta con la sintetica e assai semplice espressione di Dietrich Bonheffer – che Benigno rileggeva proprio negli ultimi giorni – per definire in termini di coerenza una vita da cristiano: «esserci-per-altri». Gli “altri” sono stati gli uomini e le donne di tutte le comunità cui egli ha destinato le sue energie e il suo amore: la famiglia, la comunità di Ravenna, l’Azione Cattolica, la Fuci di Righetti e Montini, le cooperative, l’Ospizio di Santa Teresa e i suoi malati poveri, le formazioni partigiane, la Costituente, il Parlamento, la Democrazia cristiana, il Paese, i giovani, il Terza Mondo”. Non si poteva tratteggiare meglio, in poche frasi, l’esperienza privata e pubblica di Zaccagnini.

Giunto inaspettatamente alla guida del partito, prese su di sé la responsabilità di cambiare linea e condotta politica, dando in questo modo ai cattolici democratici l’orgoglio disperso nella lunga pratica di potere e infine mortificato, nel biennio della Segreteria Fanfani (1973-1975), da eventi epocali come la vittoria del No al referendum sul divorzio. Doveva essere un segretario di transizione, invece a Piazza del Gesù vi rimase molto più a lungo del previsto, sempre con l’ansia di promuovere un’altra idea di Democrazia cristiana. Aveva dalla sua il lungo sodalizio con Moro, di cui si avvalse per incidere sul modo d’essere di un partito infiacchito e demotivato. Un cambiamento non solo di stile – pure essenziale per rispondere in quel frangente di tempo  alle accuse di corruzione che piovevano sul principale partito di governo – ma anche e soprattutto di tenore politico. Con la Segreteria Zaccagnini trova accoglienza l’intuizione per la quale Moro aveva misurato la sua distanza dal doroteismo, prospettando all’intero partito l’esigenza di essere all’opposizione di sé medesimo. Con questo spirito la novità zaccagniniana tramuta il moroteismo in capacità di movimento e forza di suggestione, restituendo anzitutto dignità ai militanti delle sezioni. 

Vale la pena citare solo un episodio. Quando il 5 ottobre del ’75 l’esule democristiano cileno Bernardo Leighton subì a Roma un grave attentato, i giovani del partito scesero in piazza con le bandiere bianche in una manifestazione che si snodò dal Colosseo a SS. Apostoli, coinvolgendo nella denuncia del regime fascista di Pinochet rappresentanti della resistenza cilena e uomini della società civile italiana, come il segretario generale della Cisl, Luigi Macario. Partendo da quel momento di grande partecipazione emotiva, Zaccagnini mostrava di essere pronto a schierare il partito sulla linea della coesione nazionale tra tutte le forze di matrice popolari. Da ex partigiano, aveva tutta la credibilità necessaria per evocare e riproporre la natura antifascista della Democrazia cristiana. 

Al XIII Congresso (18-24 Marzo 1976) viene rieletto segretario e nel catino del Palasport dell’Eur, la sera dei risultati, la sua vittoria di misura su Arnaldo Forlani è festeggiata al canto di “Bella ciao” dai congressisti. Dopo qualche mese, alle elezioni politiche, la Democrazia Cristiana riconferma il suo primato e blocca il paventato sorpasso delle sinistre. Da qui si dipana la tela delle alleanze di Moro, fatta di dialogo e fermezza, apertura e intransigenza. Nasce dunque la Terza Fase, con l’avvento del governo Andreotti della “non astensione” e la costruzione in Parlamento di un rapporto inedito con il Partito comunista. 

Come è noto, alla fine l’operazione subì il colpo mortale del sequestro e martirio dello stesso Moro nella cupa  primavera del 1978. Zaccagnini visse con tormento e lucidità la scelta della fermezza, giacché sentiva il dovere di non cedere al ricatto dei brigatisti e, al tempo stesso, la responsabilità di non spezzare il tenue filo di speranza per la salvezza del prigioniero. Da quella vicenda uscì provato, consapevole di portare su di sé il carico di un fallimento politico. Non abbandonò il campo. Ma forse perché indurito, senza più fiducia in quell’arte della mediazione che solo Moro poteva assumere come anima della strategia democristiana, prese a forgiare l’ipotesi di un congresso in cui sancire l’esistenza, come mai nella storia dello scudo crociato, di una maggioranza assoluta delle componenti di sinistra. Era a suo giudizio l’unica condizione per salvaguardare il disegno avviato nel ’75, così da proseguire nel solco della politica del confronto con i comunisti. 

Fu un errore. Il cartello della sinistra e degli andreottiani perse nel 1980 il XIV congresso e con il “Preambolo” decollò – ancora in chiave anticomunista – la nuova alleanza di pentapartito. Proprio questo giudizio sul carattere caduco dell’esperienza democristiana in mancanza di un ruolo guida della sinistra interna, trasforma la sconfitta nella vocazione latente di alcuni settori della cosiddetta “area zac” a riorganizzare fuori dal partito le istanze più avanzate e dinamiche del cattolicesimo politico. Piuttosto, in questo epilogo della segreteria Zaccagnini si coglie l’aspetto negativo della caduta nel pessimismo e nell’irrequietezza, non un salto verso la maturità che pure il suo progetto politico poteva validamente conseguire. Da qui la frantumazione di quella geometria di valori, di procedure e di equilibri entro cui la dirigenza più vicina alla lezione di Moro aveva prefigurato e diretto la collaborazione tra cattolici e comunisti. 

Si deve per altro a Zaccagnini l’invenzione di un nuovo linguaggio, se è vero che a un Berlinguer assertore della funzione “rivoluzionaria e conservatrice” del Partito comunista egli opponeva l’ardita definizione della “sua” Democrazia cristiana come forza politica “gradualmente rivoluzionaria”. Cosa significava? Null’altro che un germoglio di sana e concreta competizione democratica. Infatti, oltre le Colonne d’Ercole della guerra fredda, la Terza Fase avrebbe dovuto favorire un confronto – per contiguità di aspirazioni e sensibilità, non per rigido antagonismo ideologico – tra due diverse opzioni politico-programmatiche: l’una ancorata al popolarismo cristiano e l’altra al solidarismo di matrice socialista. 

In questo modo Zaccagnini aboliva l’ipotesi di un cattolicesimo politico risucchiato nella palude del moderatismo e fatalmente cristallizzato nella pregiudiziale anticomunista. A lui premeva che fosse riconosciuta l’originalità della vocazione democratica dei cristiani e dunque riconosciuta parimenti la plausibilità di un’altra dialettica politica rispetto a quella incentrata sull’asse destra-sinistra o conservatori-progressisti del modello liberale classico. 

Questo, in definitiva, è il lascito di un pensiero non corroso dall’usura del tempo. Vi si scorge in filigrana un’utopia concreta che ancora può dare, in termini di stimolo e suggestione, un senso forte alla costruzione di un  bipolarismo dei valori e della responsabilità.