L’articolo che qui riproponiamo integralmente fu pubblicato su “Il Popolo” e firmato da uno dei giornalisti più autorevoli del quotidiano ufficiale della Dc: Domenico Sassoli, padre di David.

Domenico Sassoli

Presentazione

Il vertice a cui partecipano 36 paesi è uno dei più importanti eventi diplomatici da un secolo e mezzo ad oggi, anche se non ha mai avuto una risonanza adeguata – dopo la spartizione del mondo in blocchi, non si erano mai visti tanti governanti riuniti intorno allo stesso tavolo per discutere problemi comuni – La curiosa nascita dei “panieri”- Obiettivo dei lavori seppellire il passato e costruire un nuovo avvenire per i popoli.

I sovietici rivendicano il merito di aver messo in moto il processo della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Il vertice di Helsinki è stato annunciato il 15 luglio dalla Tass in tono trionfale. E in realtà furono i sovietici, nel 1954,ad avanzare per la prima volta nel dopoguerra, l’idea della Conferenza. Tuttavia bisogna pur sottolineare che il suo contenuto ed i suoi obiettivi hanno variato continuamente negli anni successivi con il variare delle situazioni e l’insorgere di nuove preoccupazioni. Prima che l’idea della Conferenza apparisse realizzabile, dovettero trascorrere ben 18 anni. Nel 1954 il mondo era in piena guerra fredda. Fu all’indomani della conferenza quadripartita su Berlino (inverno 1954) che l’allora ministro degli Esteri sovietico, Molotov, propose la stipulazione di un trattato di sicurezza collettiva. Sulla proposta, sempre da parte sovietica, si ritornò nell’estate, con la richiesta di convocare, sullo stesso argomento della sicurezza collettiva, una conferenza “pan-europea”.

La risposta occidentale fu un secco “no”. Appariva fin troppo chiaro che i russi avevano in vista due obiettivi precisi: da una parte ottenere dall’occidente una specie di sanzione al sistema degli Stati satelliti, stabilito con la forza delle armi nell’Europa orientale; dall’altra, creare degli ostacoli al progetto, allora in discussione, della Comunità  europea di difesa. Il rifiuto occidentale non disarmò il Cremlino, il quale non trascurò l’occasione per rilanciare la richiesta. Allora, era la “questione tedesca” ad offrire le occasioni più frequenti e talora spettacolari come, ad esempio nel 1954,quando il ministro degli esteri polacco Rapacki, avanzò il progetto di una riunione pan-europea per la demilitarizzazione dell’Europa centrale. Il “no” occidentale si giustificò con gli obiettivi fin troppo chiari della diplomazia dell’est tesa ad ottenere dall’occidente un riconoscimento dello “statu quo” dell’Europa orientale e, in primo luogo,della divisione della Germania.

Un fatto nuovo si verificò quando nel 1970, gli accordi firmati da Willy Brandt a Mosca e gli accordi quadripartiti per Berlino, sembrarono il terreno dei rapporti Est-Ovest dall’ipoteca tedesca. Questi avvenimenti, registratisi sulla scia della “Ostpolitik” tedesca, ammorbidirono il no pregiudiziale dell’occidente alla proposta sovietica. Non si trattava più soltanto di riconoscere, a 25 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, la realtà della situazione determinatasi in seguito alle conquiste militari russe, ma anche di individuare le possibilità e le condizioni di una distensione tra le due europe, quella dell’Est e quella dell’Ovest. L’URSS si era trovata nella urgente necessità di ottenere investimenti e tecnologie occidentali per accelerare lo sviluppo economico interno. Ecco quindi, al termine “sicurezza”, aggiungersi quello di “cooperazione”. Verificata l’esistenza fra i due campi, di una convergenza di volontà politiche e di interessi, occorreva esplorare la possibilità di individuare delle linee di compromesso fra due concezioni opposte dell’Europa.

Fu il compito della “preconferenza” che si aprì ad Helsinki il 22 novembre 1972, fra 34 ambasciatori accreditati presso il governo finlandese.

Presero parte a quelle conversazioni multilaterali, i rappresentanti di tutti i Paesi dell’Europa dell’Est e dell’Ovest, compresi Stati minuscoli, come Santa Sede, S. Marino e Malta; e ad eccezione dell’Albania filo-cinese.

Inoltre gli Stati Uniti e il Canada, i quali mantengono dalla fine della seconda guerra mondiale delle truppe nel vecchio continente, parteciparono alle conversazioni a fianco delle potenze propriamente europee.

La pre-conferenza durò sette mesi, sino al giugno del 1973. 

Nel luglio seguente, i ministri degli Esteri dei Paesi interessati,  si riunirono nella capitale finlandese per inaugurare solennemente la Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa.

Nel frattempo, gli Stati partecipanti da 34 erano diventati 35, perché Monaco, ancora incerto nel novembre 1972, aveva domandato ed ottenuto di essere ammesso alla Conferenza.

Nell’autunno dello stesso anno, il negoziato lasciò la Finlandia e si trasferì a Ginevra, di nuovo a livello di funzionari, con la promessa di tornare ad Helsinki per la solenne chiusura. Ma il negoziato, nei suoi due anni di vita, non è rimasto chiuso nel forum finlandese o elvetico. Esso è stato invece costantemente al centro degli  innumerevoli contatti diplomatici fra i responsabili dei destini dell’Europa.

Questi contatti hanno pesato in modo determinante sul destino della conferenza, decidendo volta a volta il “blocco” e lo “sblocco” delle varie materie in discussione. In fondo, alle delegazioni presenti a Helsinki o a Ginevra, non è stato concesso che di dibattere problemi di dettaglio. Si è individuato un po’ uno dei paradossi della conferenza. Si era cominciato con l’assicurare che tutti i paesi rappresentanti, dal più grande al più piccolo si sarebbero trovati, in quella che era stata inizialmente definita la conferenza più democratica finora riunitasi, in condizioni di assoluta eguaglianza e con eguali possibilità di udienza; ma verso la fine, le piccole potenze hanno dovuto rassegnarsi ad assistere all’intreccio del dialogo fra blocchi che passava al di sopra delle loro teste. La Svizzera, per esempio, che non aveva partecipato direttamente ad alcuna grande conferenza internazionale dall’epoca napoleonica, ha più volte, spalleggiata da altre piccole potenze, espresso il suo malcontento nei confronti di questa situazione.

Fin dall’inizio delle trattative, i problemi della cooperazione non presentarono, in generale, delle gravi difficoltà, finché i sovietici non pretesero di usufruire, nei commerci con l’ovest, della clausola cosiddetta della “nazione più favorita”. Sul piano della politica, invece, alla formula sovietica della “inviolabilità delle frontiere”, che implicava il riconoscimento dello “statu quo” e dei confini imposti con le armi nel 1944-45, si oppose il desiderio occidentale di perforare in qualche modo gli argini che proteggono il monolitico sistema sovietico.

Su questi punti, il dibattito è sempre stato oltremodo aspro e difficile. Soprattutto nella fase ginevrina, dove la resistenza russa alla volontà occidentale di raggiungere dei risultati concreti in materia di liberalizzazione degli scambi di persone e di idee, portò a momenti il negoziato al limite di rottura. Le posizioni apparivano inconciliabili: al principio occidentale del rapporto “uomo a uomo”, mirante a favorire sempre più intensi scambi fra gli individui dei due campi, l’URSS ed i satelliti opponevano il principio dei contatti fra organizzazioni.

La disputa su questo delicato e importante argomento rientrava nel cosiddetto “terzo  paniere”; le questioni relative allo “statu quo”, nel primo; la cooperazione economica, nel secondo; l’eventuale istituzionalizzazione della conferenza, nel quarto.

Come si è arrivati ad introdurre un vocabolo così curioso nel linguaggio diplomatico? Ci si rese conto all’epoca della pre-conferenza di Helsinki, della impossibilità di sintetizzare in un ordine del giorno le richieste dei due campi e che occorreva classificare le proposte. Ne fu incaricato il delegato svizzero Samuel Campiche, il quale sistemò, davanti ai rappresentanti dei 24 Paesi, una serie di panieri, chiedendo loro di deporvi le  proposte. Dopo lo spoglio ed il raggruppamento dei suggerimenti, il diplomatico svizzero constatò che essi potevano essere riuniti in quattro gruppi, e ciascun gruppo conservò il nome di “paniere”.

Evento diplomatico fra i più importanti da un secolo e mezzo, cioè dall’epoca del congresso di Vienna, la conferenza per la sicurezza e la cooperazione non ha avuto una risonanza pari alla sua importanza. Dopo la spartizione del mondo in blocchi di Stati antagonisti, con sistemi politici e sociali differenti, non si erano mai visti 35 Paesi riunirsi ad uno stesso tavolo per discutere problemi comuni. Tuttavia, bisogna riconoscerlo, questo aspetto spettacolare dell’evento non ha colpito l’opinione pubblica mondiale; esso è stato fin dall’inizio eclissato dal suo carattere di negoziato tra le quinte.

Ha contribuito a tenerla distante dall’interesse del grande pubblico, anche la terminologia poco esplicita, inaccessibile.

Abbiamo appena rammentato i “panieri”; bisognerebbe  parlare anche del termine “consensus”che, pur essendo l’equivalente latino di “consenso”, significa qualcosa di più sfumato, incerto, non privo di remore e di riserve. La stessa struttura della Conferenza, barricata in un labirinto di commissioni  e sottocommissioni, ha scoraggiato spesso ogni tentativo di approccio e di comprensione. In altre parole, come del resto è già stato rilevato, la Conferenza, dietro il mistero delle porte chiuse,  è apparsa come una specie di società segreta tagliata fuori dalla vita quotidiana. Fare il punto sui suoi lavori è sempre apparso compito di sottili esegeti.

Non ci si può tuttavia fermare alla parte visibile dell’iceberg, vale a dire agli aspetti devianti, alle formule arcane, alle sottigliezze delle disquisizioni giuridiche. Non si può negare tuttavia che la Conferenza ed il suo destino, interessi in modo vitale tutti i cittadini d’Europa. Essa si è data l’obiettivo ambizioso di seppellire il loro comune passato e di dare un certo indirizzo al loro avvenire. Da 30 anni non si fa che ripetere che l’Europa prevale ancora un rapporto di forze stabilito dalle armi e non dal diritto e dal comune sentire europeo. Il contenzioso ereditato dalla seconda guerra mondiale attende ancora di essere regolato. Come è possibile, in queste condizioni, vivere in Europa, da europei?

In fondo, è questo il motivo che ha guidato la Conferenza.

Presto sapremo se due anni di aspre discussioni non saranno state una vana logorrea, e se veramente, come ha scritto di recente Renaud Rosset  sul Figaro,  la Conferenza sarà l’espressione europea della distensione.

 

(Fonte: Il Popolo – 30 luglio 1975)