Avendo appena ultimato un libro sul “magistero” politico, culturale ed istituzionale di Franco  Marini, si può dire tranquillamente che oggi, soprattutto dopo questa terribile e persistente  pandemia, si sente sempre di più la necessità e forse anche l’indispensabilità di riavere nel  panorama pubblico italiano la presenza di una “sinistra sociale”. Una sinistra sociale che non  dev’essere necessariamente d’ispirazione cattolica ma che quasi si impone per affrontare la  nuova emergenza che si profila di fronte a noi. Ovvero, per affrontare una nuova, drammatica ed  inedita “questione sociale”. Certo, la sinistra sociale di un tempo, almeno quella che abbiamo  conosciuto e sperimentato nella politica italiana, aveva una identità ed un profilo politico e  culturale definiti ed immediatamente percepibili. Accompagnato da una classe dirigente che  sprigionava qualità, autorevolezza e forte radicamento sociale e territoriale.

Ma, com’è altrettanto  ovvio ed è bene non dimenticare, c’era anche una cornice politica e di sistema dove era più facile  individuare i punti di riferimento che declinavano concretamente politiche socialmente avanzate.  Una stagione che, oggi, piaccia o non piaccia, non c’è più e che è ormai alle nostre spalle.  Tuttavia, anche all’interno degli attuali contenitori elettorali – o di quel che resta dei partiti  organizzati del passato – la presenza di un settore, o di un’area o di un filone che affronti di petto  una rinnovata “questione sociale” diventa sempre più urgente. Mi rendo conto che non è una  operazione facile, soprattutto nei partiti che risentono ancora, e fortemente, del vento populista e  antipolitico. Partiti che, in ossequio alla natura personale e leaderistica della loro organizzazione,  hanno smarrito progressivamente la loro stessa identità culturale ed ideale a vantaggio della legge  populista che impone quasi per decreto il superamento delle culture politiche a vantaggio di  parole d’ordine e del verbo del “capo”. Ma la “questione sociale” è destinata ad imporsi  comunque e a condizionare le scelte concrete di quei partiti che non vivono solo di populismo di  marca grillina e della demagogia a buon mercato. 

Ma tocca soprattutto a coloro che hanno vissuto da protagonisti, o anche solo da simpatizzanti,  l’esperienza della “sinistra sociale” del passato valorizzare quel patrimonio e adeguarlo alle nuove  emergenze della stagione che stiamo vivendo. Non è più possibile anteporre all’emergenza  sociale le parole d’ordine del populismo, che ormai conosciamo quasi a memoria. E cioè, la sola  propaganda, l’esaltazione del “capo” partito, la demagogia, le promesse da circo equestre, la  lotta sempre più ridicola e grottesca alla “casta” quando chi predica questa battaglia ipocrita è  diventato a tutti gli effetti protagonista e alfiere della nuova “casta” di potere e, in ultimo, come  distribuire il potere all’interno dei rispettivi partiti tra richiami alle quote e alle intramontabili parità  di genere. Quando tutto, come ovvio e scontato, risponde solo e soltanto ad una questione di  potere nel partito e nelle istituzioni.  

E il recupero di questo patrimonio culturale ed ideale è anche la modalità concreta per rinverdire e  riattualizzare il magistero di una classe dirigente, quella di un passato recente e meno recente,  che ha contribuito a qualificare il ruolo della politica e di una cultura politica – nello specifico  quella del cattolicesimo sociale e popolare – nella storia democratica del nostro paese.