Soltanto l’altro giorno, leggendo “Il Domani d’Italia”, ho appreso la notizia della scomparsa di Giorgio La Morgia. Il direttore ha fatto bene a ricordarne la figura politica ed umana. Gli ero particolarmente affezionato in virtù di una lunga frequentazione, essendo io, tra l’altro, il dirigente dell’ufficio Formazione nel quadro della sua segreteria politica, che ebbe inizio appunto, secondo l’accurata ricostruzione dall’articolo, poche settimane prima delle elezioni legislative del 1968. Non bisogna soccombere alla dimenticanza, specie se l’odierna fragilità dei partiti ci spinge a severe valutazioni sulle cause più remote della crisi, anche nei rapporti che attengono alla vita democratica della città di Roma. In effetti, D’Ubaldo è l’unico che ancora parla di una storia politica, quella appartenente a noi dc romani, di cui non dobbiamo vergognarci affatto. Ritengo, anzi, che ne possiamo rivendicare con orgoglio i tratti essenziali e decisivi. È giunta l’ora di rimuovere la polvere di una propaganda avversa.

La Morgia ha avuto un grande ruolo nella organizzazione del partito negli anni ‘60. È stato il segretario di una Dc che diventava partito strutturato, con dinamiche autonome, secondo il criterio fondamentale,  fino ad allora enunciato in teoria e però mal digerito in pratica, della laicità dell’impegno dei cristiani nel mondo. Vivevamo la primissima fase del post Concilio, mentre la contestazione giovanile e le lotte sindacali mettevano a dura prova l’alleanza di centro-sinistra. La classe dirigente democristiana, raccolta attorno ad Amerigo Petrucci, riusciva nell’operazione di sganciamento dalla stretta tutela dei Comitati civici. Solo allora prese forma una giusta autonomia dal vecchio blocco aristocratico-papalino e quindi, nella realtà dei fatti, dall’ambiente che per molto tempo, attraverso il Vicariato, aveva orientato le scelte amministrative e politiche del Campidoglio. Di ciò parlava con intelligenza Salvatore La Rocca, leader tra i più influenti della Dc romana, che tra mille difficoltà cercava comunque di inserire in questo processo di rinnovameto le ragioni della sinistra interna. Nel voto sulla segreteria La Morgia ci fu l’astensione di questa componente, ma si trattò di un segnale di attenzione più che di distacco polemico.

La Morgia non era in senso stretto un “amico di Petrucci”, dal momento che esisteva e aveva peso il suo gruppo politico – il gruppo lamorgiano – nel variegato panorama delle correnti democristiane di Roma. A proposito di Petrucci non nego le luci e le ombre – tra queste l’adozione del giovane Vittorio Sbardella – di una leadership meritevole di essere correttamente inquadrata sul piano storico, per apprezzare l’incisività che la sua azione ebbe nel contesto della vita pubblica romana. Devo esprimere, a riguardo, il disappunto nell’assistere al processo freudiano della sua rimozione dal nostro Pantheon. Nel giudizio dei nostri maldestri “nipoti”, Il Sindaco del Nuovo Piano Regolatore viene sostituito da Luigi Petroselli. Alla domanda su quale sia stato il miglior Sindaco di Roma, il figlio (Paolo) di Fabio Ciani indica infatti Petroselli, imitato in questo dal figlio (Antonio) di Nicola Stampete. Sto parlando, insomma, di persone che – devo presumere – hanno ricevuto dai rispettivi genitori una concreta testimonianza della lunga e complessa stagione democristiana. Dovrebbero perciò avere memoria di cosa ha rappresentato la straordinaria esperienza di Petrucci.

Per quanto mi riguarda, desidero comunque rammentare che dopo aver definito Petroselli un “trinariciuto” per l’ostracismo riservato al nostro partito, all’opposizione in Campidoglio, andai tra la sorpresa dei militanti comunisti al suo funerale. Gli resi doverosamente omaggio: aveva fatto anche delle buone cose per la città. Appena eletto, però, si era preoccupato di ammonire le forze sociali, a partire dai sindacati, affinché con la Dc fosse interrotto ogni rapporto politico. Era quindi divisivo, a dispetto di certa apologetica ancora vigente. Petroselli non è mai stato il Sindaco di tutti i romani, bensì, nel vero immaginario collettivo, il Sindaco dei comunisti.

Dunque, il ricordo di La Morgia ci spinge a rivedere alcune logore rappresentazioni. Sono dispiaciuto di vedere offuscate le ragioni del mondo democristiano romano. Ci fu uno stile, insieme a una sostanza, che gli altri non ebbero. Mi domando perché ai nostri “nipoti” nessuno abbia spiegato che Petrucci, giunto alla guida del Campidoglio, ebbe subito coscienza della necessità di mettere intorno al tavolo tutti gli “stakeholder” interessati allo sviluppo della città, senza alcuna discriminazione politica. Perché non suggerire ai nostri “nipoti” che aver prodotto un disegno di sviluppo della città con largo e qualificato consenso, condizione necessaria ai fini della costruzione di un futuro ordinato e degno alla Capitale d’Italia, sia stato l’epicentro di una visione forte e concreta, per la quale valga la pena soffermarsi oggi nel giudicare l’operato di questo grande Sindaco dimenticato?

È questa una riflessione un po’ intristita che il pessimismo della ragione consegna all’oblio della politica. Di Amerigo Petrucci rimarrà solo l’indicazione toponomastica di un largo – neanche una piazza –  all’intersezione tra il Tevere e il Circo Massimo, proprio in fondo alla magniloquente via Petroselli. Ma rimarrà altresì il mio ringraziamento sincero che una certa emozione suggerisce ogniqualvolta metto piede nella meravigliosa Villa Pamphili, da lui espropriata e aperta al pubblico. Camminando tra le vie del parco, tutte contrassegnate coi nomi degli “eroi” della sinistra marxista, mi accorgo in coscienza di non poter nascondere la piega di un amaro sorriso sulla bocca.