Articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Roberta Cutaia

Nella seconda metà del III secolo, mentre infuria un’epidemia, l’antico vescovo di Cartagine scrive un’autentica teologia delle opere di carità, un testo di grande attualità che ben ci introduce in questo tempo di penitenza segnato dall’emergenza sanitaria

«È vero, carissimi fratelli, che qualcuno di noi, per tirarsi indietro dall’elemosina, cerca la scusa di avere famiglia e figli»; forse «ti rimane il dubbio di restare senza soldi, se farai molte opere buone?». È un breve stralcio tratto da De opere et eleemosynis, scritto fra il 252 e il 254, durante un’epidemia, da san Cipriano, vescovo di Cartagine, il primo che in Africa conseguì la corona del martirio. Un testo questo — di autentica teologia dell’elemosina — dai contenuti di disarmante attualità, che introduce il nostro tempo di Quaresima, condizionato proprio da una pandemia. Fin dai primi tempi, il cristianesimo sull’esempio di Gesù Cristo si mostrò “anticonformista” nel garantire a ogni persona da mangiare e da bere, chiedendo a tutti di dare un contributo e non soltanto a pochi. «Tu sei preoccupato e hai paura che, se inizierai a donare la maggior parte del tuo patrimonio, forse ti potresti ridurre in miseria, una volta che i tuoi beni siano stati spesi tutti per una generosa beneficenza: su questo sii impavido, sii tranquillo. Non può finire ciò che si spende a vantaggio di Cristo». L’invito del vescovo Cipriano non è un mero sentimentalismo ma una scelta di vita supportata dalle sacre Scritture. «Lo Spirito Santo parla per mezzo di Salomone e dice: “Chi dà ai poveri, non avrà mai bisogno, ma chi distoglie il suo sguardo sarà in grande miseria”[…]. Di conseguenza mentre i poveri nelle loro preghiere innalzano il rendimento di grazie a Dio e pregano per noi, in virtù delle nostre elemosine e delle nostre opere di carità compiute a loro favore, la ricchezza di colui che compie il bene è accresciuta dalla ricompensa di Dio» (Cipriano, Trattati, Città Nuova, 2004, pagine 108-130).

Delle opere caritative Cipriano non fu soltanto promotore; lui stesso praticò fino al martirio (14 settembre 258) questo esercizio di carità. Tant’è che nelle comunità della Chiesa africana esistevano — equivalente delle Caritas dei nostri giorni — delle specie di casse dove si raccoglievano donazioni, ognuno secondo le proprie possibilità, solitamente una volta al mese o quando si poteva a favore dei poveri per provvedere a qualsiasi necessità e non solo per il nutrimento. «Tu conservi il denaro, che non ti salva anche se conservato a dovere, accumuli un patrimonio che ti opprime con il suo peso, e non ti ricordi che cosa rispose Dio al ricco che si vantava con sciocca vanagloria dell’abbondanza dei suoi beni. Disse: “Sciocco, in questa notte ti è richiesta la tua vita. Allora di chi saranno le cose che hai preparato? Dividi i tuoi guadagni con il tuo Dio”» (capitolo 13). Cioè i poveri e i bisognosi del mondo! E Cipriano, che comprendeva molto bene i timori e le paure delle persone di rinunciare a taluni propri beni, rassicurava la comunità con episodi ricavati dalla Bibbia. Tra gli altri esempi quello della vedova della città di Giaffa, Tabitha, famosa per le opere di carità che faceva a qualsiasi persona bisognosa. «Poiché Tabitha, che si era dedicata moltissimo a compiere opere di carità ed elemosine, si era ammalata ed era morta, fu mandato a chiamare Pietro presso il capezzale della defunta. Quando egli giunse sollecitamente seguendo l’istinto caritatevole proprio del suo apostolato, fu circondato dalle vedove che piangevano e supplicavano, mostrando i mantelli, le tuniche e tutti gli abiti, che erano stati donati dalla buona vedova; imploravano la grazia per la defunta non con le loro parole, ma per le opere da lei compiute»; mentre «tutti entravano nella stanza e si meravigliavano, il corpo si rianima, risorto di nuovo a questa luce del mondo. I meriti della misericordia ebbero tanta efficacia, ebbero tanto valore le opere di carità! Colei che aveva donato i mezzi per vivere alle vedove in difficoltà meritò di essere richiamata alla vita grazie alla preghiera di quelle stesse vedove» (capitolo 6).

«Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia!», scrive Alessandro Manzoni ne I promessi sposi (Meridiani, Mondadori, 2002, tomo I , pagina 422). Fare l’elemosina è imitare l’amore di Dio, che per primo si è preso cura dell’uomo. Il termine deriva dal greco eleemosyne, dal verbo eleêin: avere compassione, pietà. Un altro esempio calzante ripreso da Cipriano è la storia della vedova di Zarepta. «Si parla di una vedova: dopo che si era esaurito ogni cibo a causa della carestia e della fame, quella vedova aveva fatto un pane di cenere con il poco farro e olio che era rimasto; dopo averlo mangiato, sapeva che sarebbe morta insieme ai suoi figli. Sopraggiunse Elia e le chiese che fosse dato da mangiare prima a lui. Quella donna non esitò a obbedire, né come madre preferì i suoi figli a Elia, pur essendo nella fame e nel bisogno. Anzi al cospetto di Dio compie ciò che è gradito a Lui: senza indugio e con generosità offre ciò che era richiesto e dona non una piccola parte dal molto, ma tutto quel poco che possiede; pur essendo affamati i suoi figli, si nutre prima un forestiero e nella miseria e nella fame si pensa prima al dovere della carità che al cibo, perché si salva in modo spirituale l’anima compiendo opere di carità» (capitolo 17). Ora la Quaresima, col suo ricorrente invito alla penitenza e all’emendazione, potrebbe o, meglio, dovrebbe, essere il tempo propizio per intraprendere un nuovo cammino di vita sotto l’egida e l’auspicio del cartaginese Cipriano. «Gareggiamo volentieri e gioiosamente per raggiungere questa vittoria che otteniamo grazie alle opere di carità» (capitolo 26). «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre» (Matteo, 6, 26).