La perenne tensione balcanica

 

L’area balcanica – permanente zona critica d’Europa – si è in queste due ultime decadi suddivisa in diversi stati ma non ha risolto molti dei nodi di fondo – etnici e religiosi – che la caratterizzano o la perseguitano, rimanendo così un problema dalla potenziale esplosività incistato nel cuore del continente. L’idea di una Grande Serbia genera immediatamente quella di una Grande Croazia e quindi la fine dello Stato bosniaco. Con le inevitabili ripercussioni sulle minoranze dell’una e dell’altra parte.

 

Enrico Farinone

 

Diversi lustri sono trascorsi dalla disgregazione di quella che fu la Jugoslavia, nazione non-allineata guidata dal mitico maresciallo Tito e Stato multi-etnico e multi-religioso per definizione. L’area balcanica – permanente zona critica d’Europa – si è in queste due ultime decadi suddivisa in diversi stati ma non ha risolto molti dei nodi di fondo – appunto etnici e religiosi – che la caratterizzano, oserei dire che la perseguitano. Rimanendo così un problema dalla potenziale esplosività incistato nel cuore del continente.

Seguendo la rotta tracciata da Slovenia e Croazia anche Bosnia-Erzegovina, Serbia, Montenegro, Kosovo (oltre a Macedonia del Nord e Albania) hanno posto la propria candidatura per aderire alla UE ma a giudizio di tutti gli osservatori (e al di là dei diversi capitoli tuttora aperti e non facilmente completabili) l’Unione commetterebbe un grave errore nell’accoglierli in quanto si porterebbe in casa un conflitto che purtroppo cova ancora sotto le ceneri. Oltre che dare – con i regolamenti comunitari attualmente in vigore – potere di veto ad altre nazioni oltre quelle già presenti la cui popolazione non raggiunge quella di molte città europee.

Non solo. Le differenze e i contrasti culturali, etnici, religiosi si traducono in vertenze intorno ai confini fra i diversi stati, classico elemento che può innescare conflitti, spesso non solo latenti. E’ vero però che l’integrazione di tutti questi Paesi nella UE consentirebbe di “imbullonare” le attuali frontiere annullando così un argomento foriero di rischi gravi e ne favorirebbe uno sviluppo economico e infrastrutturale di sicuro interesse per tutti. Tanto è vero che, nell’assenza degli europei, di quest’ultimo punto si stanno occupando i cinesi, i russi, i turchi. Ovvero gli attori più assertivi e dinamici dell’attuale equilibrio geopolitico mondiale.

Per la Cina, che ha nel porto del Pireo il suo hub logistico nel vecchio continente, punto di approdo della sua “Via della Seta marittima”, il corridoio balcanico è essenziale per trasportare nei mercati di sbocco del nord Europa le merci arrivate via mare ad Atene. Non è un caso se ormai da quasi dieci anni Pechino ha costruito la piattaforma “17+1” (PECO, Paesi Europa Centro Orientale), un club di rappresentanza e promozione dei suoi interessi incistato nella Mitteleuropa. E anche se nell’ultimo anno ha perduto un membro (la Lituania) e pure un po’ di smalto col parziale disimpegno di alcuni suoi componenti, ma non di quelli balcanici, rimane un inequivoco esempio di quanto la Cina miri ad allargare la propria penetrazione commerciale dalle nostre parti.

Un impegno che si è allargato anche alla campagna vaccinale, in particolare in Serbia. Paese principale dell’area, guidato da un autocrate, Aleksandar Vucic, in buoni rapporti oltre che con i cinesi anche e soprattutto con la Russia, fornitrice di grandi quantità di vaccino Sputnik. Qui i legami sono soprattutto culturali, in ragione della comune matrice slava, ma pure di approccio politico verso l’idea di una supremazia regionale che accomuna la visione dello stesso Vucic e di Vladimir Putin. Quella del serbo, ovviamente, è limitata ai territori dell’ex Jugoslavia, ma proprio questo produce frizioni e preoccupazioni assolutamente da non sottovalutare.

Prova ne sia l’ultima crisi, ovvero la crescita di un sempre più baldanzoso neo-nazionalismo serbo in seno alla Bosnia-Erzegovina che da parte sua Vucic sta alimentando, con l’evidente anche se non plateale sostegno di Putin: il quale non da oggi ritiene strategica tutta l’area balcanica, da recuperare all’influenza russa. Paese confederale composto da serbi, croati e bosniaci musulmani avente una presidenza collegiale tripartita ovviamente sottoposta a tutte le inevitabili tensioni di natura etnico-religiosa di un Paese in parte serbo-ortodosso e in parte croato-musulmano: dunque quello maggiormente a rischio di implosione fra tutti quelli sorti alla fine della guerra civile degli anni Novanta.

L’idea di una Grande Serbia genera immediatamente quella di una Grande Croazia e quindi la fine dello Stato bosniaco. Con le inevitabili ripercussioni sulle minoranze dell’una e dell’altra parte. In luoghi ove poco più di 30 anni fa si sono registrati massacri raccapriccianti e permangono odi atavici anche il solo pensiero di queste possibili ripercussioni desta una reale sensazione di paura. Paura di una nuova guerra nel cuore dell’Europa. Sarajevo. Ricorda nulla?

L’area balcanica – permanente zona critica d’Europa – si è in queste due ultime decadi suddivisa in diversi stati ma non ha risolto molti dei nodi di fondo – etnici e religiosi – che la caratterizzano o la perseguitano, rimanendo così un problema dalla potenziale esplosività incistato nel cuore del continente. L’idea di una Grande Serbia genera immediatamente quella di una Grande Croazia e quindi la fine dello Stato bosniaco. Con le inevitabili ripercussioni sulle minoranze dell’una e dell’altra parte.

 

Enrico Farinone

 

Diversi lustri sono trascorsi dalla disgregazione di quella che fu la Jugoslavia, nazione non-allineata guidata dal mitico maresciallo Tito e Stato multi-etnico e multi-religioso per definizione. L’area balcanica – permanente zona critica d’Europa – si è in queste due ultime decadi suddivisa in diversi stati ma non ha risolto molti dei nodi di fondo – appunto etnici e religiosi – che la caratterizzano, oserei dire che la perseguitano. Rimanendo così un problema dalla potenziale esplosività incistato nel cuore del continente.

Seguendo la rotta tracciata da Slovenia e Croazia anche Bosnia-Erzegovina, Serbia, Montenegro, Kosovo (oltre a Macedonia del Nord e Albania) hanno posto la propria candidatura per aderire alla UE ma a giudizio di tutti gli osservatori (e al di là dei diversi capitoli tuttora aperti e non facilmente completabili) l’Unione commetterebbe un grave errore nell’accoglierli in quanto si porterebbe in casa un conflitto che purtroppo cova ancora sotto le ceneri. Oltre che dare – con i regolamenti comunitari attualmente in vigore – potere di veto ad altre nazioni oltre quelle già presenti la cui popolazione non raggiunge quella di molte città europee.

Non solo. Le differenze e i contrasti culturali, etnici, religiosi si traducono in vertenze intorno ai confini fra i diversi stati, classico elemento che può innescare conflitti, spesso non solo latenti. E’ vero però che l’integrazione di tutti questi Paesi nella UE consentirebbe di “imbullonare” le attuali frontiere annullando così un argomento foriero di rischi gravi e ne favorirebbe uno sviluppo economico e infrastrutturale di sicuro interesse per tutti. Tanto è vero che, nell’assenza degli europei, di quest’ultimo punto si stanno occupando i cinesi, i russi, i turchi. Ovvero gli attori più assertivi e dinamici dell’attuale equilibrio geopolitico mondiale.

Per la Cina, che ha nel porto del Pireo il suo hub logistico nel vecchio continente, punto di approdo della sua “Via della Seta marittima”, il corridoio balcanico è essenziale per trasportare nei mercati di sbocco del nord Europa le merci arrivate via mare ad Atene. Non è un caso se ormai da quasi dieci anni Pechino ha costruito la piattaforma “17+1” (PECO, Paesi Europa Centro Orientale), un club di rappresentanza e promozione dei suoi interessi incistato nella Mitteleuropa. E anche se nell’ultimo anno ha perduto un membro (la Lituania) e pure un po’ di smalto col parziale disimpegno di alcuni suoi componenti, ma non di quelli balcanici, rimane un inequivoco esempio di quanto la Cina miri ad allargare la propria penetrazione commerciale dalle nostre parti.

Un impegno che si è allargato anche alla campagna vaccinale, in particolare in Serbia. Paese principale dell’area, guidato da un autocrate, Aleksandar Vucic, in buoni rapporti oltre che con i cinesi anche e soprattutto con la Russia, fornitrice di grandi quantità di vaccino Sputnik. Qui i legami sono soprattutto culturali, in ragione della comune matrice slava, ma pure di approccio politico verso l’idea di una supremazia regionale che accomuna la visione dello stesso Vucic e di Vladimir Putin. Quella del serbo, ovviamente, è limitata ai territori dell’ex Jugoslavia, ma proprio questo produce frizioni e preoccupazioni assolutamente da non sottovalutare.

Prova ne sia l’ultima crisi, ovvero la crescita di un sempre più baldanzoso neo-nazionalismo serbo in seno alla Bosnia-Erzegovina che da parte sua Vucic sta alimentando, con l’evidente anche se non plateale sostegno di Putin: il quale non da oggi ritiene strategica tutta l’area balcanica, da recuperare all’influenza russa. Paese confederale composto da serbi, croati e bosniaci musulmani avente una presidenza collegiale tripartita ovviamente sottoposta a tutte le inevitabili tensioni di natura etnico-religiosa di un Paese in parte serbo-ortodosso e in parte croato-musulmano: dunque quello maggiormente a rischio di implosione fra tutti quelli sorti alla fine della guerra civile degli anni Novanta.

L’idea di una Grande Serbia genera immediatamente quella di una Grande Croazia e quindi la fine dello Stato bosniaco. Con le inevitabili ripercussioni sulle minoranze dell’una e dell’altra parte. In luoghi ove poco più di 30 anni fa si sono registrati massacri raccapriccianti e permangono odi atavici anche il solo pensiero di queste possibili ripercussioni desta una reale sensazione di paura. Paura di una nuova guerra nel cuore dell’Europa. Sarajevo. Ricorda nulla?