La rivoluzione di Boccaccio. A colloquio con Renzo Bragantini, autore de “Il Decameron e il Medioevo”.

 

Siamo lieti di riproporre, per gentile concessione, questa intervista apparsa sulla edizione dell’Osservatore Romano del’8 marzo. Il libro di Bragantini intende sottrarre Boccaccio a una condizione di fratello minore rispetto a Dante della “Commedia” e Petrarca del “Canzoniere”.

 

Francesca Romana De’ Angelis

 

Studioso di alto profilo, docente di Letteratura italiana alla Sapienza di Roma e in diverse università degli Stati Uniti, Renzo Bragantini si è occupato e ha scritto di molti autori della nostra letteratura, in particolare Dante, Tasso, Manzoni, Pascoli, della prosa italiana di invenzione e delle intersezioni tra letteratura, musica e arti figurative. A Boccaccio, l’autore più suo, Bragantini ha dedicato negli anni studi di grande rilievo, frutto di un rigoroso impegno filologico e interpretativo che oggi, per naturale contiguità e convergenza, confluisce ne Il Decameron e il Medioevo rivoluzionario di Boccaccio (Roma, Carocci, 2022, pagine 216, euro 19). Un libro ricco di intuizioni e di nuove, affascinanti prospettive di lettura che, grazie anche a una scrittura di grande intensità e di altrettanta limpidezza espressiva, è un prezioso strumento per chi voglia accostarsi o riaccostarsi al capolavoro di Boccaccio, il grande cantore delle invenzioni narrative.

Come è nato questo libro?

Questo libro, che è il frutto di un lavoro durato più di tre anni, è nato come una sfida: sottrarre Boccaccio a una condizione di fratello minore rispetto a Dante della Commedia e a Petrarca del Canzoniere, e restituirgli tutta la grandezza che gli appartiene.

Perché questa condizione di minorità del Decameron?

Il Decameron è forse il meno esplicito dei tre testi fondativi del Trecento volgare, e ciò che cela è certamente più di quello che esibisce. È necessario, perciò, far emergere questa ricchezza per dar conto di un testo che è certamente più arduo di quanto a prima vista non appaia. A questo si aggiungono altri motivi. Il Decameron, ad esempio, non ha alle spalle una lunga, prestigiosa e continuativa tradizione di commenti, come la Commedia dantesca. E ancora spesso si privilegia la lettura di racconti isolati e l’interruzione del flusso narrativo continuo, che è caratteristica fondamentale del Decameron, impedisce di comprendere quanto sia raffinata e complessa la struttura del libro. Altro elemento che ha influito sulla scarsa conoscenza e popolarità è quella stolida lettura licenziosa che accompagna il Decameron tanto che, a differenza di dantesco e di petrarchesco, oggi si utilizza l’aggettivo boccacciano e non boccaccesco, che ormai ha acquisito il significato di licenzioso.

Come hai orientato il tuo lavoro per raggiungere lobiettivo di restituire a Boccaccio quel che gli appartiene?

Mi sono mosso con la libertà che ogni ricerca permette, ma anche esige. Boccaccio è una personalità ricca di molte sfaccettature, sperimentatore di generi diversi, innovatore — è sua l’invenzione dell’ottava rima — ricercatore e copista di testi. Ho cercato di attraversare i suoi percorsi dell’invenzione e di restituire, per quanto possibile, la trama delle relazioni testuali per far emergere il grande dialogo di Boccaccio con le sue fonti: da Oriente a Occidente, dalla tradizione classica alla volgare, dalla Scrittura alla letteratura devozionale alla narrativa ebraica. Boccaccio nel Decameron non cita i suoi autori di riferimento — Ovidio, Apuleio, Cicerone, Seneca tra gli altri — rifiuta a differenza di Petrarca una trasposizione inerziale dei classici, piuttosto li assimila, li metabolizza, li emulsiona. L’inventio boccacciana spesso è costituita da tessere minute che si sovrappongono, una strategia che alleggerisce il peso dottrinario ed è così sottilmente raffinata da sfuggire, se non si scruta a fondo. Ad esempio, per difendersi dalle accuse di immoralità Boccaccio ricorre a un’argomentazione tratta dalla lunga elegia del II libro dei Tristia dove si sostiene che l’immoralità non è nei testi, ma nello sguardo di chi vuol vederla, inaugurando così, attraverso il prediletto Ovidio, l’etica del lettore. Del resto, Boccaccio è scrittore dalla perfetta allusività, capace di trattare tutti gli argomenti con straordinaria leggerezza. Un altro esempio. Boccaccio è lo scrittore dell’amicizia, un sentimento per lui più sacro dell’amore. Nella celebrazione della sodalitas, sentimento che coincide con un bene disinteressato, resta potente traccia della memoria, della gratitudine, della concordia celebrati dall’amato Seneca nel suo De beneficiis.

La ricchezza «meravigliosa» del Decameron, per usare un aggettivo caro a Boccaccio, autorizza sempre nuovi percorsi di indagine e di ricerca. Tra tanti studiosi due nomi restano insostituibili: Francesco De Sanctis con la sua definizione di «la commedia umana delletà medievale» e Vittore Branca con «lepopea del Medio Evo». Si aggiunge adesso la tua definizione di Boccaccio interprete di un «Medioevo rivoluzionario».

Per spiegare la tensione rivoluzionaria che rende innovativo il Decameron ho preso a prestito il termine “ferializzazione” che il grande critico d’arte Roberto Longhi utilizzò per Caravaggio, capace di calare un soggetto sacro nella quotidianità. Così, ad esempio, il celebre Martirio di San Matteo diventava un assassinio di strada spogliato di ogni tensione devota. Questo avveniva a fine Cinquecento, ma già due secoli prima Boccaccio nel suo Decameron immetteva la classicità nella vita quotidiana del tempo, integrandola nel mondo contemporaneo. Boccaccio rivoltava come un guanto il prezioso patrimonio dell’antichità, rendendolo così presente ma irriconoscibile.

Alla morte di Dante nel 1321 Boccaccio ha 8 anni, mentre 9 anni lo dividono da Petrarca. Quale fu il rapporto tra le «Tre corone»?

Dante è per Boccaccio un poeta amatissimo fin dalla prima giovinezza e un modello insuperato di invenzione letteraria. A Petrarca lo legano ammirazione e devota amicizia, un sodalizio che durerà tutta la vita. Un legame così forte che supererà la crisi seguita alla decisione di Petrarca di accettare a Milano l’ospitalità di Giovanni Visconti, espressione di quei regimi signorili allora in piena espansione contro le libertà comunali. Il vero modello di Boccaccio è comunque Dante. La sua lezione è palese soprattutto sul piano della convivenza di stili diversi, capaci di rendere ragione dei tanti aspetti del reale, una «democrazia stilistica» che condividono rispetto alla «medietà» petrarchesca. A questo bisogna aggiungere che Boccaccio fu anche copista sia della Commedia che del Canzoniere. L’amore per Dante e Petrarca, sia idealmente che materialmente, avrà la funzione supplementare di tenere unite le «Tre corone» in un legame insieme intellettuale e umano.

Cosa ha rappresentato per te scrivere questo libro?

Un’esperienza molto impegnativa e altrettanto coinvolgente. Riattraversare il Decameron significa ogni volta rendersi conto di quanto questo capolavoro sia arduo e ingannevolmente semplice e accessibile. E poi Boccaccio è stato per me un grande maestro. A differenza di Dante e di Petrarca che esprimono un “io” all’interno del testo, Boccaccio, a parte pochissime zone del Decameron, è esterno al disegno narrativo, assume sempre la prospettiva del distanziamento ironico, dilemmatico, perplesso. Estrarre una lezione morale da questi racconti è difficilissimo. Boccaccio non legge il mondo, ma ragiona del mondo. Acuto lettore della società del tempo non ha la nettezza dei giudizi danteschi. Insegna il distacco dalle cose, il sorriso, il riso, la malinconia, il dubbio, la critica. Attraverso il rito sociale della narrazione insegna anche, e celebra in modo magistrale, il valore delle parole con un forte richiamo alla civile convivenza come irrinunciabile bene.