Articolo pubblicato dalla rivista Treccani a firma di Mattia Diletti

In queste ultime settimane l’attenzione dei media americani e internazionali si è concentrata, giustamente, sui fatti politici di maggior rilievo: il processo di impeachment del presidente Donald Trump e l’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani. Tra i due eventi vi è una connessione ‒ più di un commentatore ha messo in evidenza questa relazione, soprattutto negli Stati Uniti ‒ e senza dubbio possiamo dire che essi rappresentano gli assi portanti del dibattito pubblico americano, quelli che annunciano l’anno elettorale. Superfluo ripetere quanto sia cruciale, questo anno elettorale: si tratta di osservare se il mini ciclo politico che ha portato alla ribalta le leadership populiste mondiali ‒ avviatosi nel 2016, con l’elezione di Trump e il referendum sulla Brexit ‒ si confermerà per altri quattro anni anche negli USA (in Gran Bretagna abbiamo già ottenuto una prima risposta nelle elezioni di dicembre).

Come ovvio, ad attrarre l’attenzione sono le strategie mediatiche dei concorrenti, da Trump al gruppo di leader democratici che si sfideranno alle primarie (che avranno inizio il 3 febbraio, con i tradizionali caucus dell’Iowa): si entra in partita, si osservano i profili dei giocatori. Un altro aspetto però di grandissimo rilievo ‒ su cui pongono attenzione soprattutto i commentatori americani e gli specialisti di analisi elettorali ‒ e sul quale crescerà sempre di più l’interesse con l’avvicinarsi delle scadenze elettorali, riguarda quale parte della società americana si mobiliterà in vista delle elezioni del 2020, ovvero quali segmenti della composita società statunitense saranno attratti dall’appello al voto dei candidati (sollecitati, ça va sans dire, dalle sempre più sofisticate strategie di targettizzazione messe in atto dai team dei candidati).

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