La società italiana ha bisogno di una Chiesa vitale. Intervista a Giuseppe De Rita.

Nello stesso momento in cui il Papa rivolgendosi ai vescovi italiani li ha spronati nella direzione della sinodalità, il fondatore del Censis Giuseppe De Rita, che di Italia se ne intende, si lasciava andare ad una riflessione

L‘intervista di Andrea Monda a De Rita appare sul numero oggi in edicola dell‘Osservatore Romano.

Nello stesso momento in cui il Papa rivolgendosi ai vescovi italiani li ha spronati nella direzione della sinodalità, il fondatore del Censis Giuseppe De Rita, che di Italia se ne intende, si lasciava andare ad una riflessione preoccupata sulla stanchezza della chiesa e quindi della società italiana, augurandosi uno scatto, un sussulto da parte della istituzione ecclesiastica, che potrebbe passare anche attraverso l’indizione di un sinodo. «Un sinodo potrebbe servire perché vorrebbe dire che la chiesa si interroga e cerca di fare un passo in avanti. Ci vuole però uno scarto, una mossa ben pensata. Perché un sinodo oggi non può avere il suo punto di partenza in documenti teologici, in testi dall’alto profilo culturale già esistenti; non si può quindi fare un sinodo intellettuale, e lo dice un intellettuale. Non puoi fare nemmeno un sinodo di apertura al mondo, perché il mondo è più povero di te, a chi ti apri, a Trump? Salvini? Macron? Paolo VI poteva aprirsi ai francesi, Wojtyła aveva un occhio preciso verso gli anticomunisti come Blair… ma oggi con chi dialoghi? No quindi alle élite cattoliche intellettuali e no anche all’apertura al mondo; resta una strada che passa attraverso una forte spinta di autocoscienza del corpo sociale. La chiesa si deve chiedere “verso dove sto andando, verso l’accidia, verso l’abbattimento intellettuale, morale senza speranza?”. Ci vuole quindi un cammino di autocoscienza con dei meccanismi di provocazione, penso a una batteria di non più di dieci domande tese a provocare la coscienza del gruppo (parrocchiale, diocesano, dei religiosi…) che si riunisce e che dice: stiamo parlando della nostra società così come la vediamo noi e alla quale vogliamo partecipare cercando di capire. Questo processo deve arrivare a un ultimo momento di incontro, di pensamento che porta alla stesura di un manifesto che non è un documento di sintesi finale ma appunto un manifesto, proteso in avanti.

Più volte il Papa ha precisato che un Sinodo non deve soltanto produrre documenti ma avviare e accompagnare processi.

Esatto. Il Concilio Vaticano II è partito quando è stato messo da parte il documento preparatorio. Ottaviani e Felici avevano predisposto un testo preparatorio, quando gli altri hanno detto “Questo testo noi non lo discutiamo” è lì che è partito il Concilio. Altrimenti avrebbero discusso su quel testo e basta. Il punto cruciale è trovare il modo in cui la cultura si muove con la base, in cui camminano insieme l’alto e il basso, la testa e l’assemblea. L’assemblea ratifica, analizza ma non può fare tutto da sola, bisogna lavorare tutti insieme, il sinodo deve essere un cammino della comunità, non una mera riflessione.

Bergoglio diventa Francesco sei anni fa e in questo periodo il mondo è cambiato. Ora non c’è Obama ma c’è Trump, e nel frattempo è intervenuta la Brexit, sono emersi i sovranismi e nazionalismi: qual è oggi la sfida più grande per Papa Francesco?

Il problema che è emerso in questi anni è quello dell’identità. Non ho alcuna simpatia per tutti questi sovranisti sparsi per il mondo però capisco che loro gestiscono un problema identitario che i vari Obama degli ultimi decenni hanno trascurato in nome della globalizzazione, per questo arrivano Orban e gli altri a dire: “Prima gli ungheresi” (o gli americani, gli italiani…). La Chiesa dovrebbe affrontare seriamente il problema identitario riconoscendone l’importanza senza entrare in polemica con il sovranista di turno. L’identità è una grande questione e si muove su cerchi concentrici: c’è l’identità personale, familiare, locale, etnica, sociale, politica. Bisogna prendere sul serio questo problema partendo dal fatto che la realtà dell’uomo è molto complessa in quanto l’uomo, inteso come persona, è una rete di relazioni (familiari, sociali, politiche…) e qui entrano in gioco le realtà intermedie. È vero che oggi i corpi intermedi sembrano evaporati, per cui il sindacato non c’è più, il partito non c’è più, l’ideologia non c’è più. Però l’identità intermedia c’è, ci deve essere, sarà l’identità del borgo etrusco o della Padania, però è necessaria e su questa bisogna lavorare. Bisogna tener presente che l’identità viene dall’impasto tra interessi e realtà sociali. La classe operaia nacque dall’impasto degli interessi (orario, salario…) e di una mobilitazione sociale magari contro i cannoni di Bava Beccaris. La stessa identità italiana non è nata sui libri dei padri fondatori come Leopardi, Manzoni, Gioberti, ma è nata grazie a Garibaldi e a meccanismi di mobilitazione sociale e di interessi puntuali (“Vogliamo il Mezzogiorno”, “Vogliamo un pezzo di Austria”…). Oggi per fare identità bisogna stare dietro agli interessi e chi segue gli interessi intermedi sono le piattaforme (di servizi, di comunicazione…). Il vero ente intermedio oggi non è un ente ma è la piattaforma in cui si trova il contadino con lo chef stellato di Shanghai, che si ritrovano insieme in una piattaforma che noi chiamiamo “filiera enogastronomica”. Senza inseguire i corpi intermedi, bisogna invece andare a vedere dove sono gli interessi e chi ci sta agendo sopra. Se non si fa questo si finisce per fare molta retorica. Io che sono stato un cantore dei corpi intermedi oggi non ne parlo, li ho difesi anche contro Renzi, fautore della disintermediazione, che è stata una reazione non pensata. Vista la crisi del partito, del sindacato, della comunità montana, della provincia, si è detto “azzeriamoli”, creando un danno peggiore. Togliere tutto ciò che si trova in mezzo tra il leader politico e il cittadino è stata un’assurdità realizzata con l’illusione di poter parlare direttamente al popolo. In assenza di realtà intermedie questa è l’anticamera del populismo.

L’esempio delle Province è emblematico: nessuno aveva mai posto il problema delle province anche perché era la realtà più identitaria di tutte, per cui uno in Italia si sente molto più viterbese che laziale, cosentino che calabrese. A un certo punto scatta il no alle province: “costano troppo”, “troppe poltrone”… un giornalismo d’inchiesta monta quest’onda contro le province. All’epoca io scrissi due articoli per difendere le province ma non ci fu nessun altro con me su questa battaglia. Il corpo politico si lasciò convincere e le province furono abolite, salvo poi qualche anno dopo ripensare l’opportunità di ripristinarle, perché le province contengono entrambe le cose: l’identità e gli interessi e si tratta di identità tradizionali che sfidano il passare del tempo. Possiamo andare indietro di secoli e pensare al conflitto tra i comuni italiani, tra Perugia e Todi ad esempio, come aveva colto Riccardo Misasi nel suo saggio “Storia di un libero comune”.

Oggi il problema identitario si mescola con il fenomeno della paura sociale. Su queste pagine la scrittrice americana Marilynne Robinson ha parlato di “marketing del rancore”.

Il rancore è il figlio, anzi il lutto, di ciò che non è stato. Non c’è nessuno di più rancoroso di un coniuge che si è separato dall’altro: perché il matrimonio è fallito, è venuto a mancare, quella promessa è crollata. Il rancore oggi circola ordinariamente per tanti motivi: un matrimonio fallito, la perdita di un posto di lavoro, un concorso andato male… Questo rancore ordinario diventa un fatto sociale quando diventa collettivo, strutturale. In Italia l’ascensore sociale, che dal 1945 in poi ha fatto crescere praticamente tutti, a un certo punto si è fermato, per cui tutti siamo diventati ceto medio ma nessuno o pochissimi sono diventati classe borghese. La classe borghese è rimasta una piccola fascia elitaria (i figli del ’68, i figli dei professionisti…) ma il salto di qualità non c’è stato. Questo stop dell’ascensore genera un rancore indifferenziato difficile da affrontare. Si possono certo trovare dei capri espiatori: l’Europa, i governi precedenti, i migranti. Ma questo non è affrontare il problema alla radice. Ci vorrebbe invece una classe politica capace di spingere ancora verso quella mobilitazione sociale verticale che ha fatto grande l’Italia. E invece oggi i politici cercano di rassicurare il ceto medio (e facendo così generano ulteriori paure) coccolandolo con provvedimenti come il reddito di cittadinanza. Bisogna rimettere in moto l’ascensore sociale perché se resta fermo cresce la paura dell’impoverimento, della regressione, per cui si cerca solo il colpevole, si fa saltare il sistema europeo, si chiudono i porti.

La chiesa, la religione può giocare un ruolo in questa crisi?

Ho provato a indicare questa strada nel saggio “Il Consolato guelfo”, che era una risposta al saggio di Misasi e prendeva spunto da quello di Paolo Prodi: “Il romano pontefice”. Nell’epoca dei comuni guelfi esistevano due autorità, quella civile e quella religiosa, la prima garantiva la sicurezza, la seconda il senso della vita. Questo sistema è necessario ancora oggi, ci vogliono queste due dimensioni, altrimenti la società non cammina. La persona che garantisce sicurezza non può dare senso alla vita, se chiudi i porti non puoi indicare un futuro ricco di senso. In Russia Putin ha bisogno del patriarca. Dal punto di vista laico si può garantire sicurezza anche abbastanza facilmente, più difficile è garantire quel “di più”. In Iran, dove si uccidono migliaia di persone al mese per garantire sicurezza però c’è anche la Sharia, la legge coranica a offrire un orizzonte di senso. E anche in Cina c’è una riscoperta di Confucio. C’è bisogno di una sicurezza che io definirei materna e non poliziesca, per cui il pedale della sicurezza va mitigato da un senso più umano, appunto materno, per tenere le due cose insieme, sicurezza e senso. Secondo me non lo puoi fare con la stessa persona ma invece la logica italiana, e in parte europea, vuole la concentrazione dei poteri nell’unico leader. In Occidente noi abbiamo un testo che può essere di grande aiuto, la Bibbia, importante però che non sia preso come libro delle risposte. Alcuni amici mi definiscono “talmudico” per dire una cosa in cui credo, che cioè non c’è una verità chiara e distinta che cala dall’alto ma devi andare a cercartela, provando a capire a suon di tentativi. Devi fare come il talmudista che prende un argomento, una frase, ci gira e ci rigira intorno… così anch’io sono 60 anni che faccio questo mestiere di sociologo e di questo ho fatto un mio piccolo talmud. C’è bisogno secondo me di un sano empirismo, non ci servono documenti pontifici o della conferenza episcopale, no, davanti a me la realtà si presenta come un problema concreto e io devo andarlo a vedere, a conoscere, ci passo e ripasso sopra, lo guardo da destra, da sinistra… Ho la sensazione che spesso nella chiesa italiana questo concetto non riesca a passare. Papa Francesco invece è empirista. Penso ai suoi discorsi da vescovo, ad esempio ad Aparecida, pieni di intuizioni geniali, come quello della realtà che non è una sfera ma un poliedro. Questa idea che una realtà sghemba non la puoi inquadrare in una sfera o in una piramide ma la devi rispettare nel suo essere sghemba è semplice quanto formidabile. Bene, questa cosa qui un vescovo italiano fa molta fatica a comprenderla, il vescovo italiano ha bisogno del testo codificato al quale obbedire. Proprio per questo è necessario, direi urgente, un sinodo poliedrico, sghembo, direi talmudico, che abbia una segreteria che non sia di redattori di testi ma di organizzatori di incontri. Da qui può ripartire la vitalità della chiesa italiana di cui tutta la società ha bisogno.