Ognuno a modo suo ha cercato di sopravvivere alle pandemia. Anche il calcio e, forse, dovremo riconoscere proprio al virus il merito di avere sollevato l’ultimo lembo d’ipocrisia che facendo leva sul tifo, nascondeva l’indecenza di un sistema che ha trasformato uno sport bellissimo e ricco di leggende in un lurido e volgare mercato.

Da spettacolare come lo è stato per oltre un secolo, il calcio è diventato spettacolo con imprenditori pronti a rischiare una quota dei propri capitali nelle società professionistiche, con sensali di carne umana ormai globalizzati e con i padroni delle televisioni che acquistando i “diritti”, di fatto condizionano e determinano le sorti del sistema. La pandemia ha svelato questo meccanismo che ha ancora la pretesa (avallata da un giornalismo compiacente, se non complice) di essere nazional-popolare, cioè di tutti. Quando così non è più.

La prosecuzione del campionato (a porte chiuse che per i padroni delle televisioni è ancora meglio) voluta a tutti i costi da chi lucra (e molto) su questo mercato, sta mostrando l’allontanamento di questo sport dal sentimento popolare di cui prima godeva e il suo restringimento nel più modesto bacino dei tifosi, o illusi dalle glorie del passato, o, peggio, frutto di un degrado culturale che li avvicina pericolosamente alle strategie di una violenza diffusa che ha nel calcio un proprio punto di reclutamento e di forza. Non so se il campionato a porte chiuse abbia fatto aumentare gli abbonamenti alle televisioni “proprietarie” del sport, ma dubito che vi siano nuovi abbonati estranei al bacino di utenza della tifoseria. Con un rischio per chi ha investito capitali nel calcio e cioè che il gioco più bello del mondo sia ormai vicino all’implosione.

Tutti abbiamo superato senza danni l’astinenza della sospensione del campionato, né ci rinfranca questo spezzatino che ci propone qualcosa di indefinibile quasi ogni giorno (e questo per gli interessi dei noti investitori di questo mercato). Certo la platea della tifoseria è ancora numerosa, ma l’impossibilità di riunirsi attorno alle bandiere tradizionali ormai irriconoscibili nell’indistinzione affaristica delle plusvalenze e degli ingaggi di “campioni” sempre più simili essi stessi a titolari di società di investimento, alla fine peserà sulla scelta “inevitabile” di fare a meno di questo spettacolo sempre meno attraente e, soprattutto, sempre meno credibile. Amavo il calcio; l’ho giocato (credo benino) nel ruolo di portiere; seguivo “Tutto il Calcio Minuto per Minuto” e, prima di quello, la domenica pomeriggio andavo alla latteria dove il titolare esponeva sul tabellone del Totocalcio i risultati; conservo ancora calzettoni, calzoncini, scarpini, maglie e guanti come cimelio di una bella memoria che gli interessi forti stanno distruggendo per sempre.

Con un dubbio: se, come si è detto tante volte, il calcio è la metafora della società, non succederà che prima o poi quegli stessi interessi finiranno per fare implodere anche il sistema sociale che fino ad oggi abbiamo conosciuto?

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