La risposta del Congresso alla insurrezione dei trumpiani è stata ferma, tanto da portare a notte fonda, ora di Washington, alla proclamazione di Joe Biden. La democrazia americana non si piega, anche se il colpo inferto da un Presidente forsennato, pieno di soldi e di debiti, ne ha sfregiato il volto con questa ultima dimostrazione di protervia e irresponsabilità. Dopo una lunga e angosciosa interruzione, a seguito degli incidenti provocati dagli squadristi debitamente incitati dal loro beniamino della Casa Bianca, i lavori parlamentari sono stati ripresi in un clima di compostezza e determinazione, nel mentre la Guardia nazionale e i nuclei speciali dell’antiterrorismo assumevano il controllo della Capitale. Il bilancio degli scontri è grave, con quattro morti e diversi feriti, nonché numerosi arresti, dentro e fuori le mura del Palazzo.

Perché si è giunti a questo? Si dice che sia il frutto avvelenato del populismo. Eppure nella storia americana il populismo ha rappresentato un fenomeno ricorrente di stimolo e contestazione, anche dura, senza mai produrre tuttavia un attacco materiale alle istituzioni. In realtà, il fenomeno rappresentato da Trump non si riduce a una variante del classico populismo a stelle e strisce, solo con qualche esasperazione. È molto di più, anzi è qualcosa di diverso, sebbene del populismo riprenda toni e contenuti, con la nota dominante dell’avversione per le élite. Grazie a Trump il risentimento del “forgotten man” si è intrecciato con l’odio degli estremisti, nutriti di ideologia violenta, fino ad una allucinata proclamazione di alterità dal potere. Il trumpismo ha sancito la saldatura della protesta di ceti e gruppi sociali anti-globalisti con l’insorgenza di una cultura eversiva, pervicacemente identitaria e antagonista, fuori dai  tradizionali parametri di tolleranza. Questa novità si riassume nella scomparsa di quella barriera protettiva che storicamente ha tenuto separato il conservatorismo dalle posizioni più radicali e oltranziste, indubbiamente letali per il regime di convivenza ideato dal liberalismo.

Il drammatico scenario americano, ora con un Presidente isolato e sotto accusa, incita al riesame di questo algoritmo impazzito di una grande democrazia che annovera nei suoi pochi secoli di esistenza i Lincoln e i Roosevelt, campioni della libertà e del progresso agli occhi dei popoli di tutto il mondo. Oggi lo sguardo è rivolto ai Repubblicani, perché ad essi spetta il compito di rigenerare la politica della vera destra costituzionale. I maggiorenti del partito, a cominciare dall’ex Presidente George W. Bush, hanno finalmente preso le distanze dall’usurpatore della bandiera repubblicana. Il loro disgusto per la condotta di Trump deve perciò tradursi nel ripudio della vergognosa esperienza di questo quadriennio presidenziale. Se possibile, la rimozione di Trump andrebbe eseguita nell’interesse generale. Anche da questa parte dell’Atlantico l’attesa fervida e sincera è per il riordino della visione democratica della nazione guida dell’Occidente.

Non conta, adesso, enucleare ciò che di buono si può rintracciare nella vicenda di Trump: vi è sempre una parte di verità nelle cose, se vogliamo anche nelle cose peggiori e anche nelle loro dinamiche più errate. È però necessario aggredire l’origine del male, ovvero questa presunzione di rifare l’America secondo un modello, persino esportabile, di prepotenza anarchica ed egoistica, sdegnosamente fondato sulla forza. Ha ragione Biden. Per rifare grande l’America, sul serio e non come voleva Trump, bisogna che l’esempio della forza sia sostituito dalla forza dell’esempio. Non è un gioco di parole. L’America deve dare a se stessa e alle altre nazioni l’ennesima prova della sua capacità di costruire un nuovo immaginario democratico, per dimenticare il miserevole retaggio del trumpismo e rinnovare la fiducia nell’autentica tradizione della libertà, come avevano sperato e creduto i Padri fondatori.