L’antica arciconfraternita dell’orazione e morte

Pio V le conferì il privilegio di liberare ogni anno un condannato alla pena capitale

Articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Andrea Fratini

All’inizio della spledida via Giulia, alle spalle di palazzo Farnese, sorge la chiesa di Santa Maria dell’Orazione e Morte. Un titolo che può sembrare inconsueto, ma che è testimone di una storia che parte all’incirca nell’anno 1538. Intorno a questa data, infatti, alcuni cristiani, vedendo che molti poveri, soprattutto nelle campagne, rimanevano spesso senza degna sepoltura, mossi da pietà vollero costituire una compagnia sotto il titolo della morte, che si prendesse cura di svolgere questa pia opera di misericordia verso i morti abbandonati.

Tale compagnia inizialmente non ebbe molti ascritti tra i suoi sodali, tanto che alcuni di loro chiesero ad un famoso predicatore cappuccino di far propaganda della loro opera nella chiesa di San Lorenzo in Damaso, dove il frate teneva i suoi sermoni in occasione dell’avvento dell’anno 1551. Stando alle cronache dell’epoca, l’iniziativa riscosse notevole successo tanto che il pio sodalizio da quel momento divenne sempre più numeroso.

Nel 1552, infine, papa Giulio III approvò ufficialmente tale opera come confraternita, poi elevata al rango di arciconfraternita, con il titolo dell’«Orazione e Morte», poiché accanto all’opera di seppellire i defunti si aggiungeva anche il pio esercizio di pregare verso di loro per suffragare la loro anima. Papa Pio V, inoltre, concesse alla confraternita un privilegio del tutto eccezionale, ossia quello di liberare un condannato a morte nell’ottava del Corpus Domini.

La confraternita ebbe sede inizialmente presso la chiesa di Santa Caterina da Siena in via Giulia ed in seguito presso la chiesa di Santa Caterina della Rota. Tuttavia, nel 1572 i confratelli poterono acquistare un terreno nella zona di via Giulia e qui, nel 1575, iniziarono i lavori di costruzione di una chiesa che diverrà la sede ufficiale della confraternita. La chiesa di Santa Maria dell’Orazione e Morte per l’appunto.

Quella che si può ammirare oggi tuttavia, è frutto dei rifacimenti avvenuti agli inizi del ‘700 sotto la guida dell’architetto Ferdinando Fuga, grande protagonista dell’arte barocca e tardo-barocca, al cui genio Papa Benedetto XIV affiderà la costruzione della nuova facciata della Basilica di Santa Maria Maggiore. Nelle forme attuali è considerata uno dei massimi gioielli del barocco romano, caratterizzato dall’interno a pianta ovale e dalla graziosa facciata su cui compaiono scheletri alati e clessidre, come perenne memento mori per tutti coloro che ivi passavano, secondo un gusto tipico dell’arte del xvii secolo. La chiesa, come si può immaginare, era dotata di un cimitero annesso, in parte in superficie e in parte sotterraneo. Del cimitero che era in superficie non è rimasto più nulla, poiché demolito a seguito della costruzione dei muraglioni del Tevere nel corso dell’Ottocento. Del cimitero sotterraneo, invece, è rimasta oggi solo una piccola cripta, in cui sono ancora esposti teschi e scheletri, similmente alla più nota cripta dei cappuccini in Via Veneto.

Oltre al cimitero, la confraternita aveva qui anche dei saloni appositi (anch’essi demoliti) in cui si svolgevano le “Sacre Rappresentazioni della Morte”. Si trattava di messinscene teatrali in cui venivano rappresentati episodi di carattere sacro tratti dalla Bibbia o dalle vite dei santi, il cui scopo era quello di far riflettere gli astanti sui cosiddetti “novissimi” (inferno, purgatorio e paradiso). A tal fine venivano utilizzate anche statue di cera e, in alcune occasioni, veri e propri cadaveri.

Oltre a ciò, nelle varie chiese di Roma era usanza tipica erigere, specialmente durante l’ottaviario dei defunti, catafalchi ed apparati effimeri con impressi scheletri, teschi, e vari simboli che rimandavano alla fine della vita. Un modo di approcciarsi alla tematica della morte forse per noi estraneo, abituati da un po’ di tempo sia a una sorta di rimozione della morte dall’immaginario collettivo, sia a una visione certamente meno cupa e macabra della stessa da un punto di vista cristiano.