Questo editoriale, pubblicato anche sul sito di “Avvenire”, merita di essere diffuso. Pensiamo di non abusare del volere dell’editore riproducendo il testo integralmente. Di Vittorio E. Parsi

Con una decisione assunta a maggioranza (5 contro 4), la Corte Suprema degli Stati Uniti ha sentenziato che la Casa Bianca ha esibito «sufficienti prove» per dimostrare che fosse giustificata la decisione di stornare due miliardi di dollari dal bilancio del Pentagono allo scopo di procedere con l’edificazione del “muro de la verguenza” (il muro della vergogna, com’è chiamato dai latinos) così aggirando il voto contrario del Congresso. Si tratta di un vulnus grave al principio della separazione dei poteri, oltre che a quel “no taxation without representation” che è nel Dna dell’origine stessa della Rivoluzione americana. Per di più, mina l’idea che le amministrazioni passano, si avvicendano, ma i princìpi e le norme costituzionali restano, e le istituzioni ne fanno buona guardia. Dopo poco più di due anni di presidenza Trump, quanto è stata intaccata la rule of law, l’idea che persino il vertice dell’esecutivo debba inchinarsi alle leggi scritte e non scritte della democrazia?

Il caso del muro di Trump credo ci offra lo spunto per riflettere sul danno maggiore che questa presidenza sta causando. Ovvero lo spostamento del limite tra cosa è decente e cosa non lo è, il danneggiamento della cultura politica della democrazia, innanzitutto negli Stati Uniti d’America, ovviamente; ma non solo, se guardiamo ai tanti emuli in sedicesimo dell’uomo dai capelli arancioni: dal Brasile all’Ungheria, dal Regno Unito all’Italia.

Sin dalla campagna presidenziale, e in verità sin dalle primarie repubblicane, Donald Trump aveva mostrato una simile attitudine, in una serie di esternazione di carattere sostanzialmente razzista. Con le sue dichiarazioni, i suoi tweet ripetuti, il tycoon poi diventato Presidente ha progressivamente fatto sì che affermazioni e principi tipici della destra suprematista bianca abbiano avuto accesso allo spazio pubblico e poi istituzionale (una volta insediato alla Casa Bianca) degli Usa: non in nome del Primo Emendamento della Costituzione – quello sulla libertà di espressione, che tutela anche la pornografia, ma non la rende meno socialmente deprecabile -bensì come componente “legittima” del discorso politico.

Che persone che ricoprono cariche istituzionali facciano discorsi da bar è già in sé deprecabile. Che nel farlo impieghino categorie irrispettose della libertà e dei diritti altrui, specie dei più vulnerabili, è vile e dovrebbe preoccuparci. Berciando rabbia e odio (e noi italiani ne sappiamo qualcosa), impiegando sistematicamente la violenza verbale della sopraffazione si attenua il tabù che dovrebbe circoscrivere i peggiori istinti umani. E snaturando le parole si cambia il senso delle cose a cui quelle parole alludono.

Il “muro” oggi non evoca più la componente portante di una casa, il sostegno di un tetto, di un luogo che offre riparo a chi ne ha più bisogno. Ma semplicemente una barriera suppostamente invalicabile, per escludere a costo della morte (altrui beninteso) chi non ci piaccia. Come sappiamo la realizzazione di ostruzioni tra Stati Uniti e Messico venne intrapresa dal primo presidente Bush nel 1990 e non è stata successivamente mai abbandonata da nessuno dei successori (Clinton e Obama compresi). Ma quale era lo scopo originario di quella serie di approntamenti di confine? Combattere il narcotraffico. Lottare contro i trafficanti dei cartelli della droga.

Oggi, il muro di Trump, e quello che il premier ungherese Orbán o il suo alleato e nostro ministro dell’Interno Salvini hanno realizzato o vorrebbero realizzare, serve a bloccare i “migranti”, anche a costo di lasciarli morire, così che attraverso lo slittamento della “destinazione d’uso” dello strumento si possa compiere un analogo scarroccio tra i soggetti contro cui è rivolto: trafficanti o migranti, equiparati come minaccia alla sicurezza nazionale.

Negli stessi giorni l’amministrazione Trump decideva la ripresa delle esecuzioni capitali comminate da tribunali federali, sospese da 15 anni. Anche questo un segno dei tempi e della visione della società cui il presidente si ispira: spietata e priva di pietas. L’idea che chi è colpevole debba espiare è molto radicata nell’opinione pubblica. E negli Stati Uniti il sostegno alla “vendetta pubblica” è purtroppo ancora vasto, nonostante l’alta percentuale di errori giudiziari, la brutalità del sistema carcerario e l’enorme numero di reclusi. Ma è il contesto in cui è calata che è cambiato.

La pena di morte costituiva una sinistra “particolarità” americana, che differenziava la democrazia Usa rispetto alle democrazie europee, le quali tutte insieme però convergevano su un set di valori politici e culturali. Nel caso specifico, l’effetto emulativo esterno è impedito dalla Costituzione e dalla membership dell’Unione. Ma quanto l’idea che la difesa della società richieda un tributo di sangue si sta diffondendo anche da noi? L’ampliamento della legittima difesa, la maggiore accessibilità a detenere armi vanno in quella direzione: come se l’esperienza americana non ci insegnasse che la barbarie non si arresta con altra barbarie.

Il trumpismo non si limita però a questo. Afferma che il destino degli “altri” dei non cittadini non è “affar nostro” e immagina una comunità nazionale originaria, blindata, storicamente infondata. E anche qui assistiamo a un pericoloso slittamento. La cittadinanza non è più la casa comune che racchiude e tutela diritti e doveri di chiunque la ottenga (per nascita o per acquisizione) ma è un muro portatile, il cui scopo è meramente discriminatorio: separare sempre e comunque persino le persone che risiedono o transitano sul medesimo territorio. E non è per nulla casuale che chi fino a meno di un lustro fa maramaldeggiava di fantomatiche padanie e non rispettava il Tricolore, oggi esibisca tanto ostentato amore per l’italianità: perché così intesa è solo un recinto un po’ più ampio, il cui distorto valore non sta nell’innalzare i diritti di chi è all’interno ma nell’escludere meglio chi è senza diritti, facendone un muro invalicabile. “Povera Patria…”, come recitava un verso di una bella canzone di Franco Battiato.