Letta parrebbe aver scelto, all’interno dello schema “neo-ulivista”, una via preferenziale e cioè l’accordo con i 5S.  La strada appare comunque impervia. Ora, ci sarà voglia (e coraggio) per avviare e poi concludere una discussione seria, senza cadere nella perenne rissa interna, attualmente sedata dalle vittorie nelle grandi città?

Il PD guidato da Enrico Letta ha deciso di costituire un nuovo centrosinistra del quale siano parte, oltre al PD medesimo che ne sarebbe il dominus, le piccole formazioni del Centro (Azione, Più Europa, eventuali altre ma non Italia Viva, di fatto, in quanto guidata da persona inaffidabile), quelle della Sinistra meno radicale e infine (o meglio soprattutto) il Movimento 5 Stelle guidato ora dal prof. Conte. Questa vasta alleanza nazionale (non ancora, come si è visto, rodata a livello locale se non in casi sporadici) dovrebbe poter sconfiggere quella che il centrodestra (ma sarebbe più corretta la definizione “destracentro”) ha annunciato da tempo (con risultati alle recenti elezioni amministrative tutt’altro che buoni, ma con ottimi responsi dai sondaggi d’opinione).

Il ragionamento si basa sull’attuale legge elettorale molto più che sui contenuti programmatici che, al solito, verranno dopo. Al momento pare sufficiente una condivisione più sincera di quanto appaia quella della parte avversa alle politiche del governo guidato da Mario Draghi. Il problema, però, è che l’ala centrista (definiamola così per comodità, nell’economia di questo articolo) non è disponibile ad allearsi con i pentastellati, che da parte loro ricambiano con pari disprezzo. E non parlo qui di Italia Viva, anzi sospettata di intendenza col nemico. Le affermazioni di Calenda sono nette. E in ogni caso in quel settore della geopolitica nazionale la perplessità (ma sarebbe meglio definirla avversione) nei confronti dei grillini (o ex tali) è diffusa e intensa. E non credo che questa osservazione sia superabile con la considerazione che pure nel centrodestra l’unità è alquanto precaria. Sia perché la lotta interna a questo campo non pare poter raggiungere un punto di non ritorno, ovvero una clamorosa rottura fra i tre partner della coalizione. Sia perché ogni evidenza numerica (al di là della conferma che ne danno i sondaggi) dice che la coalizione PD-5S-Centristi può competere con qualche speranza ma senza alcuna certezza. Ovviamente senza anche solo uno dei partecipanti le possibilità svaniscono. E proprio questo è il punto.

Tenere insieme centristi e pentastellati, senza con questo perdere la sinistra non estrema (ci sono numerose sinistre, come noto, e diversi partitini con pochi voti però) e assicurandosi al contempo il proscenio principale in una sorta di rievocazione della “vocazione maggioritaria” di veltroniana memoria è impresa assai ardua. A mio avviso impossibile.

È peraltro corretto ricordare che prima delle elezioni politiche ci sarà la votazione per la Presidenza della Repubblica. L’esito di quest’ultima potrebbe mutare il quadro generale e pertanto è certo opportuno spostare a dopo ogni ragionamento definitivo. 

Ad ogni buon conto il Pd parrebbe aver scelto, all’interno dello schema “neo-ulivista” (chiamiamolo così solo per semplificazione, perché l’Ulivo era una cosa totalmente diversa), una via preferenziale e cioè l’accordo con i 5S. Il possibile, o probabile, loro ingresso, sponsorizzato dal Nazareno, nel gruppo dei progressisti europei lo sancisce. Una decisione che desta notevoli perplessità in molti dem, al momento però “silenziati” dall’ottimo risultato del partito alle amministrative e da sondaggi dignitosi nonché dal timore di vedersi “cancellati” nella complicatissima gestione delle future liste elettorali. E che invece pare a Conte (e pure al suo competitor interno principale, anche se non dichiarato, il ministro Di Maio) una generosa ciambella di salvataggio a fronte di un movimento che nel suo insieme egli non riesce a governare come ormai è chiaro a chiunque.

Immaginare che la situazione all’interno del mondo pentastellato rimanga così indefinita come è ora, guidata verso un ruolo da junior partner del Pd dal binomio Conte-Di Maio (col supporto di Fico e di qualche altro colonnello) è però illusorio. C’è l’enigmatico silenzio di Grillo, il fondatore ormai stanco e deluso ma ancora in grado di esercitare un ruolo non secondario nella galassia del Movimento, se lo vorrà. C’è la ribellione in atto di Casaleggio junior e Di Battista, prossima ormai a saldarsi per dar vita a un Movimento di protesta coerente con le origini del grillismo d’antàn. C’è la disperazione dei tanti parlamentari che non sanno più che fare, nella vana ricerca dell’alleanza giusta per tentare una rielezione altamente improbabile. Ma c’è soprattutto, e di più, l’incognita di quei milioni di cittadini che votarono M5S in alternativa rabbiosa al “sistema” dei partiti, contro i politicanti, contro la Destra e contro la Sinistra (forse più contro la Sinistra) e che ora si sono rifugiati nell’astensionismo senza perdere quella rabbia contro tutto il mondo che ruota intorno alla politica. Un serbatoio al quale tenteranno di attingere i futuri “alternativisti radicali”, da Di Battista a, magari, Fedez e chissà qualcun altro ancora.

Scommettere sulla tenuta elettorale di Conte e Di Maio è rischioso. Certo, lo sarebbe pure se si puntasse sui “centristi”. Una galassia variegata indebolita dalle troppe sigle, dai troppi personalismi, da una legge elettorale che non li favorisce, dall’assenza di un leader unificante e non divisivo, da molto altro ancora. Ma…ma espressione di un pezzo di società italiana un po’ stufo di un centrodestra divenuto ostaggio di una Destra antieuropeista e ambigua sulla campagna vaccinale contro il Covid così come di un centrosinistra ricalibrato su un versante più individualista che sociale, più populista che popolare, più intriso di radicalismo che di moderazione. Anche se compiutamente europeista, e questo gli viene riconosciuto.

Questa fetta non so dire quanto ampia di italiani, ma in ogni caso non risibile, passa per le varie piccole sigle del centrismo e include quote elettorali di Forza Italia, certo, ma anche dello stesso Pd e probabilmente pure della decisiva componente nordista della Lega sempre più dubbiosa sulla leadership nazionalista di Salvini. Ecco, questa fetta di popolazione – che in parte oggi rappresenta una quota non marginale di quel 40% che stabilmente non risponde all’interpello sondaggistico – io temo che, al dunque, se non avesse alternative, fra sinistra alleata con i pentastellati o quel che resterà di loro e destra securitaria opterebbe – turandosi magari il naso (cit.) – per quest’ultima. Per motivazioni o meglio, preoccupazioni, di politica interna, che rimangono preminenti – purtroppo ed erroneamente – su quelle di politica europea (ad oggi il vero punto forte del centrosinistra italiano). 

Si tratta solo di un’ipotesi. Ma non campata in aria. Soprattutto se il sistema elettorale rimarrà l’attuale, come è piuttosto probabile. Se questa preoccupazione dovesse venir condivisa, come credo sia, da molti nel Pd una seria discussione in argomento sarebbe utile, all’indomani dell’elezione del nuovo Capo dello Stato (un evento che, come detto, potrebbe peraltro mutare il quadro: questo oggi non è dato saperlo).

Ma, nel caso, all’interno del Pd ci sarà voglia (e coraggio) per avviare e poi concludere detta discussione senza cadere nella perenne rissa interna, ora sedata dalle vittorie nelle grandi città? Una domanda alla quale è difficile rispondere, anche se al momento parrebbe più probabile la risposta negativa. Ma in questo caso il rischio di una sconfitta alle politiche sarà elevato.