Il discorso con il quale Marco Bentivogli ha concluso ieri l’evento “Unire i Riformisti” ci pare un buon contributo al dibattito politico italiano.
Ha indicato una missione: condividere nel popolo e col popolo una coscienza riformista capace di alimentare con valori sociali e comunitari l’Agenda Draghi, oggi “minoritaria”, in realtà, nel Parlamento.

Lo stesso senso del suo riferimento al termine “riformista” ci è parso lontano dalla mitologia un po’ trita in voga; per nulla in assonanza con le declinazioni elitarie e iper liberiste di altri; piuttosto in sintonia con la bella provocazione di Stefano Zamagni (“il riformismo tradizionale non basta più: serve uno sforzo di radicale trasformazione della società e delle politiche”).

Ha poi indicato un perimetro politico: basta “Bi-Populismo”. Serve una vera alleanza per superare la stagione della demagogia, della delegittimazione istituzionale, della irresponsabilità verso le future generazioni.
Ed ha evocato un metodo: lavorare dal basso, senza pregiudizi, orticelli precostituiti e leadership auto proclamate.
Interessanti anche i contenuti ai quali Bentivogli ha accennato, contro le scorciatoie del neo statalismo e a favore di una dinamica innovativa delle relazioni comunitarie, sociali ed economiche.

Ci pare una buona piattaforma di discussione per tutti coloro che hanno a cuore il futuro del nostro Paese e intendono concorrere ad una prospettiva di “ricostruzione”.
Vogliamo infine commentare un passo di Bentivogli che ci riguarda tutti da vicino.
“”Si, non temete, costruiremo un lessico fatto di parole meno logore: riformismo, socialismo, liberalismo, popolarismo. Quello che per noi conta è, come dice Luciano Floridi, riconoscerle come radici di una cultura politica. E le radici non si evocano continuamente, sono sottoterra ma determinano il fusto, i rami, le foglie e i fiori di queste culture e soprattutto la loro capacità di integrarsi.””

Ecco, questo è il vero tema ancora aperto. Come raccordare le radici con i rami e i fiori.
Perché se è vero che, senza rami e fiori, le radici diventano inutili e si inaridiscono, è anche vero che senza radici culturali la politica (come lo stesso riformismo) perde la sua bussola valoriale e smarrisce il “senso” stesso delle cose che propone.
Vale per tutti. Vale anche per i popolari di ispirazione cattolico democratica.
Trovare dimensioni nuove di rappresentanza significa oggi dare una risposta innovativa a tale questione. E va trovata, forse, immaginando nuove “forme partito”, nelle quali l’integrazione tra le culture politiche non significhi abiura, archiviazione o annullamento delle identità – che abitano peraltro la comunità prima che la sfera partitico-istituzionale – ma incontro rispettoso e fecondo.

Forse è questa la scommessa che il PD non ha voluto affrontare. O, meglio, non era affrontabile dentro una tradizionale forma partito.
Questione comunque dirimente, oggi.

Per questo occorre che i popolari ritrovino con urgenza un loro “ubi consistam” (mettendo in Rete, senza equivoci politici, le tante esperienze che ci sono) e poi decidano attraverso quali strumenti di presenza politico-elettorale intendono portare il proprio contributo.
Una cosa è certa: la cultura popolare di ispirazione cattolico democratica è parte essenziale e irrinunciabile di quelle “radici” citate da Marco Bentivogli. E la sua rigenerazione ha molto a che vedere con la qualità dei rami e dei fiori che si attendono, sopratutto sul piano della concezione “comunitaria” della democrazia e su quello della attenzione – non solo retorica – alle “attese della povera gente”.