L’intervista a firma di  Roberta Lancellotti appare sul sito dell’Azione Cattolica 

Tra pochi giorni i cittadini italiani saranno chiamati a scegliere se approvare o respingere il taglio dei parlamentari. Per approfondire meglio i nodi principali del referendum abbiamo scelto di ascoltare le ragioni del “sì” e del “no”. A dare voce ai dubbi e alle perplessità è il costituzionalista Giovanni Tarli Barbieri, professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Firenze che ha firmato un appello di 183 costituzionalisti contrari alla riforma.

Professore qual è la ragione principale per cui voterà no?
Questa è una riforma monca e contraddittoria. Cito questa espressione più o meno letteralmente dalla relazione della Commissione De Mita-Iotti del 1993, istituita per tentare una riforma della seconda parte della Costituzione sulla quale però mancarono i consensi e i tempi necessari. In quella relazione, che dava conto dei lavori e dell’insuccesso della riforma complessiva, Nilde Iotti scriveva che si era trovato in realtà un consenso su una riduzione dei parlamentari, ma portare al voto del Parlamento il soglio taglio dei rappresentanti sarebbe stato proporre una riforma monca e contraddittoria. Un intervento sul numero dei parlamentari si sarebbe dovuto accompagnare a riforme conseguenti, che appaiono indispensabili anche se non vi è alcun accordo tra le forze politiche, penso in particolari a nuove leggi elettorali. Da cittadino prima ancora che da studioso sono sempre più perplesso di una politica che scarica sulle istituzioni la sua difficoltà di affrontare i problemi reali. Dal punto di vista del Parlamento non sono i numeri ma le regole funzionamento delle Camere che andrebbero riviste.

L’obiezione più forte che si alza dal fronte del “no” al referendum, riguarda la rappresentatività. In che modo il taglio previsto da questa riforma è dannosa a suo parere?
Passeremo da un deputato ogni 96mila abitanti a 1 deputato ogni 151mila abitanti, e da un senatore ogni 188mila abitanti a uno ogni 302mila abitanti. Avremo una maggiore distanza tra elettori ed eletti che in questo momento storico di sfiducia dei cittadini nella politica non mi pare una buona idea. Ci saranno intere parti del territorio nazionale che non saranno rappresentate. Questo è un problema a prescindere dalla legge elettorale che avremo. La rappresentanza territoriale in un paese come l’Italia è una questione molto seria.

Passiamo al prossimo punto critico: la legge elettorale.
Qui si tocca un altro nodo. La legge elettorale che abbiamo e la riduzione del numero dei parlamentari sono completamente fuori asse. L’applicazione del Rosatellum Bis a 400 deputati e 200 senatori darà luogo a una grande sproporzione tra collegi uninominali. Alcuni saranno molto, troppo grandi, e ci sarà molta disparità. Avremo l’unico collegio uninominale dell’Abruzzo con un milione e 300 mila abitanti circa a fronte di altri collegi uninominali in altre parti del territorio nazionale molto più piccoli. Ad oggi non c’è neanche uno straccio di intesa su una nuova legge elettorale necessaria e conseguente a questa riforma.

Se dovesse vincere il “no” sarà più difficile trovare un accordo su una nuova legge elettorale?
Dire che il “sì” facilita un’intesa è un atto di fede. Noi ci crediamo agli atti di fede, ma non in quelli di questo sistema politico che fa molta fatica a trovare accordi anche su materie molto meno rilevanti. Ad oggi non c’è alcun accordo su nessuna ipotesi di riforma fra quelle che sono all’attenzione delle forze politiche. Questi aspetti non si possono derubricare a dei meri inconvenienti. Un sistema politico serio avrebbe avuto il dovere morale e istituzionale di arrivare al referendum almeno con ipotesi solide di riforme conseguenti e condivise. Tutto questo non c’è e lo trovo molto grave e irresponsabile.

Resta vero però che abbiamo un rapporto tra elettori ed eletti tra i più alti d’Europa. Cosa significa questo dato?
Per fare un paragone con altri paesi bisognerebbe valutare tante variabili, a cominciare dalla forma di governo e dall’assetto territoriale allo Stato. Non si possono fare paragoni sui numeri bypassando le variabili istituzionali e non istituzionali, tra cui la storia di un ordinamento. Nel nostro Paese i territori contano molto e non si possono ignorare facendo tagli a tavolino.

Al di là di questa specifica riforma, crede che sia utile un taglio del numero dei parlamentari?
Non so se potrebbe essere utile. A una riduzione dei parlamentari si può anche pensare teoricamente, non lo ritengo uno scandalo in sé, ma in un contesto diverso rispetto a quello che ci viene presentato oggi. Se si riflettesse ad esempio sul bicameralismo paritario e si provasse a ripensare questo assetto, allora si potrebbe anche immaginare un taglio, ma razionale e coerente con una riforma del ruolo del Parlamento e dei rapporti tra le due Camere.

Il risparmio netto conseguente alla vittoria del “sì” è stato calcolato dall’Osservatorio dei conti pubblici italiani in 57 milioni di euro annui (circa 285 milioni per ogni legislatura), pari allo 0,007% della spesa pubblica italiana. Eppure quello dei costi del parlamento è uno dei temi più sentiti nell’opinione pubblica.
Questo argomento ha un potenziale demagogico e populistico così alto che dovrebbe essere spazzato via dal dibattito. Ci dovremmo confrontare su altri piani. Detto questo, se le Camere hanno un costo alto si può agire su tanti versanti, a cominciare dalle indennità dei parlamentari. È l’argomento in sé che trovo pericoloso. In questo Paese le riforme che sono state realizzate in nome dei costi della politica sono state spesso sbagliate, dei veri disastri. Penso ad esempio alla riforma che ha tolto ogni contribuzione pubblica ai partiti.

Una delle questioni che più convince i promotori del “sì”riguarda l’efficienza dell’attività parlamentare. C’è un rapporto diretto tra la “quantità” dei rappresentanti e “qualità” del loro operato?
Il problema della “qualità” dei parlamentari chiama in causa numerose varianti, tra cui la capacità di selezione dei politici all’interno dei partiti. Personalmente non vedo una correlazione tra diminuzione e qualità. Chi mi assicura che avendo meno deputati allora saranno migliori? In realtà saranno migliori o peggiori a seconda di come i partiti selezionano il personale politico.

In un manifesto firmato da oltre 100 costituzionalisti per il “no” scrivete: “La riforma appare ispirata da una logica “punitiva” nei confronti dei parlamentari, confondendo la qualità dei rappresentanti con il ruolo stesso dell’istituzione rappresentativa”.
Che sia una logica punitiva lo dimostra anche la genesi di questa riforma. Il testo nasce dalla maggioranza di allora Lega e Movimento 5 Stelle. Insieme alla riforma che voteremo la prossima settimana la maggioranza giallo-verde proponeva forme di referendum nuove con forti rischi di degenerazioni plebiscitarie, evocava il superamento del libero mandato parlamentare in favore di forme di vincolo, avviava le trattative per attuare anche il cosiddetto regionalismo differenziato, che come veniva presentato allora, sembrava una riforma non certo priva di conseguenze discutibili. Di questo complesso di riforme di cui faccio fatica a salvare qualcosa, rimane quella del taglio dei parlamentari. I toni del dibattito politico sono molto cambiati da allora, ma occorre interrogarci sul populismo legislativo che da anni finisce per parlare alla pancia del paese.

Questa riforma contribuisce ad alimentare la diffidenza e la sfiducia nelle istituzioni?
Sicuramente non contribuisce a migliorare il clima di risentimento e ostilità in cui ci troviamo. Questo è uno dei grandi nodi che il nostro Paese deve affrontare subito. L’atteggiamento di sfiducia nella politica è grandemente pericoloso, anche se facilmente spiegabile. Ma attenzione: questo tipo di sentimenti non sono portatori di venti favorevoli al buon funzionamento della democrazia, bisogna stare molto attenti ad assecondarli, perché la storia insegna che le cose possono sfuggire di mano.

Ritiene che un’eventuale vittoria del “no” possa avere conseguenze sulla tenuta dell’attuale governo?
Tanti si chiedono come farebbe a rimanere in piedi un Parlamento sconfitto dal corpo elettorale. Argomentazione non immotivata sul piano. Però per lo stesso ragionamento anche se dovesse vincere il “sì” dovrebbero esserci delle conseguenze. Come potrebbe continuare a lavorare un Parlamento di 630 deputati e 315 senatori elettivi quando i cittadini hanno confermato di volerne di meno? Si certificherebbe che questo Parlamento ha numeri non in linea con la volontà popolare.

In conclusione, di quale riforma avrebbe bisogno l’Italia per migliorare i suoi processi democratici?
L’esigenza di avere un Parlamento che funzioni meglio c’è, è reale. Il problema però non è nei numeri, ma nei procedimenti e nei rapporti tra le Camere. Credo che sia necessario intervenire sul rapporto tra Parlamento e Governo. Non vedo male, ad esempio, la sfiducia costruttiva, in cui il Parlamento deve indicare una maggioranza nuova nel momento in cui sfiducia l’Esecutivo. Occorre poi correggere l’attribuzione di competenze tra Stato e Regioni, vi sono lacune direttamente nel testo costituzionale. Ma non nel testo originario della Costituzione, in una modifica introdotta nel 2001. A dimostrazione che le riforme vanno pensate e fatte bene. Parliamo infatti della nostra Costituzione: le riforme vanno fatte, sì,  ma con prudenza. Con delicatezza.

Elementi che in questo testo non ci sono?
Direi proprio di no.