Articolo già apparso sulle pagine della Società editrice il Mulino a firma di Vittorio Emanuele Parsi

A circa un anno dall’avvio della XVIII legislatura nella storia della Repubblica, l’Italia si propone agli occhi del mondo come un attore animato da eccessivo tatticismo, propenso a svilire istituzioni e trattati internazionali, cinico e maldestro nella ridefinizione della propria rete di alleanze. Convinto che la rinazionalizzazione delle questioni più complicate consenta una loro più facile soluzione e pericolosamente incline a manifestare la non irreversibilità della collocazione della sua cultura politica dominante nel novero di quelle delle democrazie occidentali. La sua politica estera sembra orientata prevalentemente, se non unicamente, ad alimentare i temi di un’infinita campagna elettorale, schiacciata sul presente e propensa a ignorare le conseguenze durature delle decisioni contingenti, irresponsabilmente disponibile a danneggiare in maniera permanente i rapporti con gli alleati chiave del Paese, mettendo a repentaglio, per riprendere Tucidide, la sicurezza, gli interessi e la reputazione della Repubblica.

La considerazione da cui partire è che, per poter avere una coerente politica estera, è necessaria una visione del mondo, della sua evoluzione e di come quelli che per brevità definiamo gli «interessi nazionali» si collochino nel quadro dell’una e dell’altra. La stessa idea di politica estera incorpora il senso del limite, dei condizionamenti che derivano dall’articolazione del sistema internazionale, sul quale la possibilità di influenza del singolo attore è per definizione modesta, perché le capacità che si hanno a disposizione sono sempre e comunque scarse. La comprensione delle dinamiche internazionali serve quindi a relativizzare questa scarsità, concentrando le risorse sugli obiettivi più importanti e cercando di porvi rimedio attraverso la tessitura di una rete di alleanze che permetta di compensarne l’insufficienza.

L’Italia si propone agli occhi del mondo come un attore animato da eccessivo tatticismo, cinico e maldestro

Pensare che l’Italia abbia degli interessi nazionali non significa essere inconsapevoli che essi siano continuamente ridefiniti dalla contrattazione politica nel governo, nelle istituzioni e tra istituzioni e società. Perché la politica estera è una «politica pubblica», né più né meno di quella sanitaria, dell’istruzione o fiscale, frutto quindi di una continua dialettica tra tutti i soggetti che in misura differente e a diverso titolo concorrono ad elaborarla. Ma in maniera del tutto peculiare la sua efficacia è determinata anche dall’accoglienza e dall’apprezzamento che riceve oltre i confini e quindi andrebbe maneggiata con estrema cautela. Essa è lo strumento attraverso il quale un Paese cerca di manifestare e attuare gli obiettivi che intende perseguire, tentando di ridurre l’impatto che deriva dai condizionamenti frutto sia del sistema internazionale sia delle politiche estere degli altri Paesi. Allo stesso tempo, nella relazione con i partner e gli alleati, ricerca quelle convergenze e quei compromessi che consentano, proprio attraverso il sostegno esterno, di meglio e più profondamente perseguire i propri interessi nazionali. Si fa squadra, per così dire, e in tal modo si cerca di guadagnare più terreno. Il continuo bilanciamento tra le pressioni interne e quelle esterne, tra il consenso domestico e quello internazionale è quindi un’elementare misura di saggezza, così come lo è la scelta di partner e coalizioni affidabili, i cui membri abbiano interessi compatibili con i propri e siano dotati di risorse importanti. Il Giano bifronte è la divinità sotto la quale una corretta politica estera dovrebbe cercare protezione: non certo in omaggio a una qualche forma di scaltra doppiezza, ma perché solo sapendo guardare ed equilibrare risorse e vincoli interni ed esterni è possibile aspirare al successo.

Come sappiamo, i cambiamenti di regime determinano una ridefinizione degli interessi nazionali, della percezione altrui e dello stesso grado di accettazione da parte degli altri. L’Italia liberale, quella fascista e quella repubblicana hanno avuto obiettivi in gran parte diversi anche e soprattutto nella loro declinazione e modalità di attuazione, al di là di una generalizzata e ovvia tutela della sovranità nazionale. E ben diverso era ed è l’atteggiamento del mondo rispetto alle pretese avanzate e alle aspettative nutrite dall’Italia in virtù non solo della loro natura (quanto conformi alla cultura politica egemone nel sistema internazionale e fino a che punto coerenti con la stabilità del sistema nel suo complesso) ma anche a seconda della reputazione del regime e del governo che le formulano (in termini soprattutto di affidabilità e consistenza tra dichiarazioni e azioni).

Oggi come ieri, se non viene specificata, la rivendicazione della sovranità è una mera banalità. Ogni Paese, e ogni classe politica, aspira infatti alla tutela della propria sovranità, alla possibilità di minimizzare l’impatto dei fattori esterni sulla propria volontà e sulle proprie decisioni. Ma la differenza sostanziale è data dal come si intende minimizzarlo, per fare che cosa e insieme a chi.

Quando, in virtù dell’esito elettorale, a formare un esecutivo è chiamata una forza dichiaratamente «antisistema», è lecito aspettarsi che ne venga influenzata pure la politica estera: del resto, negli anni i pentastellati non avevano mai cessato di rivendicare la loro radicale alterità rispetto ai partiti tradizionali anche in questo dominio. Paradossale è invece che un partito già più volte partner di coalizioni vittoriose di stampo conservatore, e membro di diversi governi di centrodestra, si ritrovi oggi a incarnare un’esibita e radicale discontinuità rispetto alla politica estera repubblicana. Gli ossessivi richiami al cosiddetto sovranismo, a un’Italia che farà da sola, padrona in casa propria, più disponibile a «nazionalizzare» le grandi questioni piuttosto che ad «internazionalizzarle», esprimono la sintesi di tale ostentata discontinuità.

Quando al governo sono forze dichiaratamente «antisistema» non può non venirne influenzata pure la politica estera

L’innaturale amalgama, ricercato caparbiamente e infine abilmente assemblato a freddo da Matteo Salvini dopo il risultato elettorale dell’8 marzo, e incarnato dall’inedito «contratto di governo» tra Lega e Movimento 5 Stelle, è possibile che non arrivi a «mangiare il panettone», come si diceva una volta degli allenatori di calcio che non portavano a casa risultati. Ma, a prescindere dalla durata della coalizione giallo-verde, è lecito domandarsi quanto potrebbero essere permanenti i danni agli interessi, alla reputazione e persino alla sicurezza del Paese che questo esecutivo è stato ed è in grado di generare.

E diciamo subito che i danni (potenziali e già in essere) a ciò che già Tucidide indicava, e poi Hobbes riprendeva, come i moventi fondamentali dell’azione esterna di uno Stato – «timore», cioè sicurezza, «interesse» e «onore», ovvero reputazione – appaiono cospicui e destinati a ingigantirsi nel loro interagire. Sappiamo bene quanto l’Italia abbia faticato, fin dal suo costituirsi in Stato unitario, per costruirsi un profilo di Paese affidabile e consistente, le cui aspettative meritassero e ottenessero la stessa considerazione di quelle dei suoi interlocutori. I fallimenti, in questo senso, sono stati molti più dei successi. Dopo la disastrosa sconfitta nella Seconda guerra mondiale, l’Italia si è ritrovata a risalire nuovamente la china, dovendo ricostruire daccapo la reputazione di solido membro della comunità internazionale, irrevocabilmente collocato tra le democrazie occidentali, in grado di riprendere quella direzione strategica di ancoraggio in Europa che già il conte di Cavour aveva intrapreso, fin dalla sua decisione di trovare nella «europeizzazione» (al Congresso di Parigi del 1856) la via per la soluzione della questione italiana.

Questa Italia ha scelto di allinearsi con gli euroscettici, invece che di trovare sponde presso i suoi storici alleati

Da Cavour a Salvini di acqua ne è passata sotto i ponti. E se è pur vero che Matteo Salvini è «solo» il ministro degli Interni, al quale non spetterebbe ruolo alcuno nella direzione della politica estera, è altrettanto incontrovertibile che «la faccia» che si distingue dietro molte delle novità della «politica estera del cambiamento» (per quanto oscurata spesso da una moltitudine di prodotti alimentari) sia la sua. Che Salvini travalichi le sue competenze di ministro è talmente ovvio che non merita neppure di essere argomentato. Ma è nella sua veste di segretario di uno dei due partiti della coalizione di governo che fa valere con veemenza le sue convinzioni, aiutato in questo dalla natura tecnica (e quindi politicamente debole) del ministro degli Esteri e da quella quasi notarile del premier. Con buona pace di Conte e di Moavero Milanesi, quando in Europa, nel Mediterraneo e oltreoceano si pensa all’attuale governo si vede Salvini. È sua innanzitutto la triangolazione semplicistica tra tutela della sicurezza nazionale, questione migratoria ed evocazione della sovranità, che lo ha condotto alla ricerca di relazioni privilegiate con la galassia sovranista che furoreggia in Mitteleuropa, mentre nello stesso tempo i rapporti con Berlino, Madrid e Parigi sono costantemente peggiorati.

Eppure la politica estera dovrebbe svolgere una funzione di cerniera tra l’ambito domestico e quello internazionale

L’Italia – uno dei sei Paesi fondatori della Comunità, ricordiamolo – è oggi marginale rispetto a quel che avviene e si decide nell’Unione e ha scelto di allinearsi con gli euroscettici, invece che di trovare sponde presso i suoi storici alleati. Nel far questo, il governo italiano non solo equivoca sulla compatibilità degli interessi dei suoi nuovi «amici» con i propri (come si possa trovare un punto di sintesi tra le concezioni anguste e scioviniste dei sovranisti è difficile capirlo), ma sopravvaluta grossolanamente la portata che una simile inedita alleanza potrà avere sulla capacità di riformare quei tratti delle politiche e delle istituzioni europee che pure necessitano di una revisione. Schierare l’Italia nel fronte di chi vuole indebolire l’Unione è una scelta le cui conseguenze potrebbero essere durature: è un danno reputazionale da cui trarranno vantaggio altri. A partire dalla Spagna che, nonostante le difficoltà politiche e istituzionali in cui si dibatte, sembra però in grado di sapersi proporre come un più affidabile interprete del malessere di un’Europa mediterranea consapevole che la «secessione» spirituale e di interessi dall’Europa carolingia non è la soluzione ai suoi mali. Ovvero che se una malattia dell’Unione esiste, la terapia proposta dai sovranisti rischia di uccidere il paziente.

Di questa nouvelle vague dell’Italia sovranista la polemica antifrancese ha rappresentato una sorta di ostentato vessillo, sostenuto vigorosamente anche dai pentastellati, che ha prodotto i suoi effetti più devastanti in Libia. Sotto l’impulso decisivo di Salvini, le sole azioni concrete nella crisi libica sono state quelle orientate al blocco dei migranti, di cui la definizione della Libia come «approdo sicuro» esprime la tragica sintesi e parodia. Sul dossier libico il governo italiano si è mosso in sostanziale discontinuità con gli esecutivi precedenti, relegando sullo sfondo preoccupazioni umanitarie, interessi energetici, stabilizzazione della Libia, sicurezza nazionale e lotta al terrorismo. A partire dalla constatazione di un fattore di rivalità oggettivo nei confronti della politica di Parigi in Libia (che rimonta all’intervento Nato del 2011), questo esecutivo ha consentito l’esibizione di una polemica a tratti persino idiosincratica nei confronti del presidente francese Macron e ha commesso un grossolano errore di valutazione circa la profondità e la costanza del sostegno da parte di Trump alla «cabina di regia» italiana sulla crisi.

Al di là dei toni felpati del premier Conte, la causa prima delle polemiche e degli errori è consistita proprio nell’aver fatto della «minaccia dell’immigrazione clandestina» l’unico punto cardinale nella bussola libica dell’Italia, cui ogni altro interesse avrebbe dovuto essere ricondotto. Il fallimento della ormai monotematica agenda libica dell’Italia si manifestava, nel corso del mese di aprile, quando da Washington giungeva il sostanziale «via libera» da parte di Trump all’offensiva del generale Haftar nei confronti del rivale al Sarraj, e il governo italiano, costretto a prendere atto che senza l’appoggio americano Roma non era in grado di tenere testa né a Parigi né al suo protégé della Cirenaica, doveva prodursi in un davvero penoso riallineamento («né con Sarraj, né con Haftar»).

L’assenza di un disegno strategico è apparsa evidente, infine, nei confronti della gestione della «Belt and Road Initiative»

Come accennavo all’esordio, la politica estera dovrebbe svolgere una funzione di cerniera tra l’ambito domestico e quello internazionale. Tutti i governi tentano legittimamente di massimizzare la propria capacità di soddisfare le pressioni domestiche e di minimizzare le conseguenze negative degli sviluppi internazionali. Rispondono cioè contemporaneamente a domande esterne e domande interne, cercando di usare strategicamente le prime per evitare concessioni sgradite alle seconde e viceversa. La sensazione è che una parte cospicua della politica estera dell’attuale governo sia invece attenta esclusivamente al consenso della platea domestica, da conseguire a qualunque costo. Ogni decisione è quindi assunta in ossequio esclusivamente a quest’ultimo obiettivo. Lo si è visto anche nei confronti degli Stati Uniti, quando si è pensato di trovare nel presidente Trump un «compagno di strada sovranista», in tal modo mettendo in ombra il carattere strutturale e permanente, strategico e non congiunturale, della relazione tra Italia e Stati Uniti. Dal voltafaccia libico ai dazi commerciali, dalle polemiche nei confronti della Nato alla denuncia unilaterale del Jcpoa (l’accordo multilaterale sul nucleare iraniano) e alle relative sanzioni verso l’Iran: non una delle decisioni più importanti di questa amministrazione americana è andata a vantaggio, anche solo tattico, dell’Italia.

L’ostentata convinzione del presidente Trump che i costi della leadership fossero sacrificabili allo scopo di riaffermare un nuovo e solitario primato americano – la paradossale pretesa di contrastare l’oggettivo indebolimento relativo degli Usa, liberandosi del «peso degli alleati» – era del resto espressa dallo slogan «America first!», quello copiato da Salvini con «prima gli italiani!». Quanto accaduto tra amministrazione Trump e governo Conte illustra fin troppo bene come coniugare i sovranismi sia un esercizio futile. Non solo. La stessa idea di utilizzare platealmente una supposta relazione speciale con gli Stati Uniti di Trump in funzione di bilanciamento dell’asse franco-tedesco significa ignorare il peso che a Washington si riconosce a Parigi e Berlino (nonostante gli attriti e le tensioni), tanto più dopo la Brexit. Non si tratta di accodarsi docilmente ai più forti, ma di agire consci dei propri mezzi. Come fece l’esecutivo Gentiloni che – mentre si muoveva in Libia per tutelare gli interessi italiani evitando però uno showdown con la Francia – lanciava insieme a Macron il progetto del «Trattato del Quirinale», volto ad evitare che gli sforzi per il rinnovamento e il rilancio della relazione franco-tedesca, formalizzati nel nuovo «Trattato dell’Eliseo», emarginassero l’Italia nell’Unione post-Brexit. Era il gennaio 2018. Nel febbraio di un anno dopo, Parigi «richiamava per consultazioni» il proprio ambasciatore in Italia.

L’assenza di un disegno strategico è apparsa evidente, infine, nei confronti della gestione della Belt and Road Initiative (Bri), promossa da Pechino. La Bri costituisce non solo il tentativo di legare in maniera strutturale i Paesi che ospiteranno le infrastrutture di collegamento tra la Cina e l’Europa occidentale, ma anche un’oggettiva sfida da parte di Pechino all’egemonia statunitense. Soprattutto per via marittima – dove gli Stati Uniti sono ancora oggi i garanti della libertà di navigazione delle principali rotte mentre la Cina è già il principale «spedizioniere» – perché le acque internazionali sono per definizione «contendibili», sono cioè un elemento in cui il confronto tra superpotenze può intensificarsi e dove si possono assumere più rischi, talvolta mal calcolati. Ma la Belt and Road Initiative rappresenta anche una sorta di materiale e concreto «manifesto» dell’idea di ordine internazionale cui Pechino punta: un ordine basato sugli affari, presentati come win-win, e non intralciato da fastidiose considerazioni «astratte» come la tutela dei diritti umani, la preferenza per le democrazie, e gli altri principi che dovrebbero concorrere a ispirare la governance del sistema.

L’adesione dell’Italia, unico Paese del G7 presente a livello di premier ai due eventi organizzati a Pechino per il lancio e il consolidamento dell’iniziativa, e il Memorandum of Understanding firmato a Roma in occasione della visita del presidente cinese Xi hanno destato perplessità se non vera e propria irritazione a Washington come a Berlino e Parigi. Anche in questo caso la continuità tra il governo Gentiloni e il governo Conte è solo apparente. Perché, mentre il governo Gentiloni manifestava un aperto interessamento per la Bri, allo stesso tempo dimostrava concretamente un costante sforzo di rinsaldare la sua appartenenza al nucleo centrale dell’Unione, garantire l’adesione di fondo dell’Italia ai principi liberali e multilaterali dell’ordine internazionale, rispettare il quadro dei trattati e delle norme internazionali cui l’Italia aderisce e obbedisce anche quando ricerchi un burden sharing meno gravoso per lei.

Per il governo Conte il sostegno all’iniziativa cinese si è invece prodotto in un contesto totalmente differente, di progressivo disallineamento rispetto all’ordine liberale internazionale: cioè quell’ordine, peraltro sempre più fragile, che ha incarnato politicamente il concetto stesso di Occidente nel secondo dopoguerra, definito dalla sua matrice atlantica ed europea, dove sicurezza e libertà si rinsaldano reciprocamente e gli eccessi delle sovranità vengono attutiti dalle istituzioni internazionali.

Si tratta di un Occidente completamente diverso da quello cui Salvini continuamente si richiama: cupamente identitario, assediato dai barbari alle porte, dai confini «murati», attraversato da paure alimentate dalla propaganda sovranista, in cui la libertà è sempre sacrificabile nel nome della sicurezza. Ed è proprio questa contrapposizione, questa evocazione e adesione dell’Italia sovranista a un Occidente tragicamente imploso nella Seconda guerra mondiale, il danno più grave e permanente che questo governo potrebbe arrecare agli interessi, alla reputazione e alla sicurezza dell’Italia.