L’articolo di Giorgio Merlo sul tema del “partito identitario” mi stimola qualche piccola riflessione che propongo, ovviamente, a fini costruttivi. Come si addice a chi, in questo disastro politico, non pretende di avere certo improbabili certezze assolute, ma prova semmai – assieme agli amici – a scorgere un sentiero possibile.

Dice bene Giorgio Merlo: sono in crisi i partiti in quanto tali, figurarsi quelli “identitari”. Non ho nulla da aggiungere alla constatazione dello stato di fatto e neppure alla critica verso proposte “nostalgiche”, che sarebbero da evitare per rispetto alla Storia, oltre che per non coprirsi di ricolo.

E tuttavia, qualche approfondimento credo sia necessario invece per quanto riguarda la prospettiva del “che fare?”. Forse è utile partire proprio dalla crisi dei “partiti”, che riflette – come sappiamo – una crisi ben più profonda. Quella, da un lato, della democrazia rappresentativa e della sua credibilità nella rappresentanza delle aspirazioni del popolo verso migliori condizioni economiche e sociali.
E quella, dall’altro, della aggregazione degli interessi individuali attorno a valori condivisi di “Comunità”.

Una volta, i “partiti” garantivano tutto questo; erano – nello stesso tempo – veicoli di identità culturale (talvolta tradotta in canoni ideologici), rappresentanza sociale di interessi collettivi, tutela della soglia minima di “bene comune” e di condivisione del patto istituzionale che lo identificava.

Oggi non è più così.
Come possiamo recuperare una prospettiva di futuro in tale quadro?

Credo che dobbiamo ragionare non su una, ma su tre dimensioni, tutte tre essenziali. Ciò che una volta era la dimensione del “partito”, postula oggi la necessità di una triplice azione. Senza una delle tre, un progetto di futuro non nasce.

In primo luogo, serve recuperare un legame tra la “politica” e il suo profilo culturale. Bisogna costruire “case” sulla roccia, non sulla sabbia. E la roccia non può essere rappresentata che da una “visione”, da valori, da convinzioni profonde, ben oltre i flutti tempestosi e mutevoli delle contingenze del momento.

Ciò vale anche per chi ha l’ardire di richiamarsi al “popolarismo”. Che non è “ideologia” (non lo è mai stata) ma neppure è un vago e indefinito spirito di “buon senso” o di “moderazione”.
Dunque, serve che chi intende richiamarsi a questa cultura ricostruisca un ambito di “soggettività politica”. Autonoma, riconoscibile, connessa con ciò che ancora resta del mondo sociale che si muove in questo ambito culturale. In questo senso, temo, gli antichi “distinguo” tra politico e pre-politico sono del tutto superati dall’emergenza derivante dai rischi di marginalità e di inaridimento di questa cultura.

Ritengo perciò del tutto irragionevoli ed irresponsabili le titubanze e le circospezioni tattiche che si notano da parte delle molte iniziative nate – a livello locale e nazionale – in questi mesi.

Ci si attende con urgenza un salto di qualità e di generoso coraggio: tocca anche ai popolari assicurare il proprio originale e peculiare contributo alla ricostruzione di una idea “sociale e comunitaria” della democrazia e di un suo rinnovato ed esigente “compromesso” con il capitalismo, che rilanci la tutela “delle attese della povera gente” e riaffermi il primato della “Comunità” sullo Stato e sul Mercato.

In secondo luogo, serve che questa “soggettività politica popolare e identitaria” non ragioni con la logica della setta, ma con quella della “politica”. E, dunque, serve una iniziativa aperta per la costruzione di un “contenitore politico-elettorale” capace di presentare agli elettori una proposta solida e robusta e di indicare una prospettiva “forte” a fronte dei rischi e delle necessità del Paese.

Una aggregazione – questa si “non identitaria” – che con realismo e serietà si sostanzi in una “proposta al Paese” nella quale sia distinguibile la cifra di quel fecondo incontro tra pensiero popolare – di matrice cristiana – e pensiero laico e liberal-democratico che ha rappresentato un pilastro della Ricostruzione e dello sviluppo dell’Italia e dell’Europa.

Qualcuno (“si parva licet componere magis”) rievoca la Margherita. Figurarsi se non mi fa piacere. Ma la Margherita – senza una presenza visibile, organizzata e credibile dei “popolari” – è un fiore che appassisce presto.

In terzo luogo, serve che si lavori ad una Alleanza per un nuovo governo del Paese. I soggetti politici esistono sempre “in quanto tali e a prescindere dagli alleati” – se non sono satelliti di altri – e in modo particolare devono marcare la loro autonomia quando cercano di rinascere quasi da zero. Ma la cultura di governo” (che è tutt’altro che attrazione inesorabile al Potere) insita nel DNA delle nostre storie e l’urgenza di costruire una alternativa credibile alla deriva in atto, devono portare a lanciare agli elettori un messaggio molto chiaro: un appello a tutte le forze democratiche che intendono impegnarsi per una nuova stagione politica capace di far tornare l’Italia ciò che essa deve essere nella sua interna dinamica culturale e sociale, in Europa e nel mondo.

Non può essere la riproposizione della Alleanza di prima, ma una nuova esperienza fondata su un nuovo progetto, su nuovi soggetti politici e su un candidato Premier capace di parlare al cuore e alla mente degli italiani al di fuori dei vecchi recinti partitici.

Una Alleanza non scontata, tutta da costruire, ma auspicata e ricercata. Perché le solitudini autoreferenziali non sono nello spirito degasperiano e neppure negli interessi del Paese.