L’elezione del Quirinale e il “metodo Ambrogio”

 

L’episodio ricordato da Paolo Mieli – l’elezione a furor di popolo di Ambrogio a Vescovo – è colto e illuminante, ma l’analogia non regge del tutto rispetto alla situazione attuale. L’elezione del Capo dello Stato, infatti, ha poco a che spartire con l’ispirazione divina o con l’esortazione di un bambino.

 

Gabriele Papini

 

In un brillante editoriale sul “Corriere della Sera”, Paolo Mieli ha stigmatizzato le pratiche singolari e i rituali opachi che da sempre circondano l’elezione del Presidente della Repubblica. Lo storico ed editorialista ha sostenuto la sua tesi suggerendo un parallelo con il “metodo Ambrogio”, cioè la modalità con cui nel 374 il governatore Ambrogio venne eletto vescovo di Milano. Secondo il racconto del biografo Paolino, Ambrogio partecipò alle esequie del vescovo emerito. A un certo punto, un bambino gridò “Ambrogio vescovo!” e la folla si unì spontaneamente a quella esortazione. Dopo un primo momento di esitazione, Ambrogio (che sarà un grande episcopo nonché patrono della città di Milano) si piegò alla volontà popolare. A questa vicenda, si è spesso ispirata la Chiesa per alcune modalità particolari nella designazione dei Pontefici: l’elezione per acclamazione era una pratica non inusuale nei secoli scorsi.

 

L’episodio ricordato da Paolo Mieli è colto e illuminante ma l’analogia non regge del tutto rispetto alla situazione attuale. L’elezione del Capo dello Stato, infatti, ha poco a che spartire con l’ispirazione divina o con l’esortazione di un bambino. Nel nostro Paese, da sempre il metodo più pratico per ottenere una carica pubblica è quello di fingere di non ambirvi. Talvolta rifiutandolo pubblicamente, quel tanto che basta per farselo riproporre per “il bene del Paese” e a quel punto accettarlo – malgrado tutto – per “spirito di servizio”.

Però è anche vero che un Presidente della Repubblica, a prescindere dalle modalità più o meno trasparenti della sua elezione, una volta eletto deve rappresentare “l’unità della nazione”, in altre parole non deve essere “divisivo”. In questa occasione – più che nel recente passato – ha fatto capolino anche il tema della questione di genere per cui la più alta carica dello Stato dovrebbe essere una donna quasi per principio. A supporto di questa tesi c’è una robusta corrente di pensiero sostenuta da giornaliste, conduttrici tv e opinioniste. Si tratta in realtà di un discorso sul metodo piuttosto che sul merito. Non si tratta cioè di analizzare le peculiarità di Marta Cartabia oppure di Rosy Bindi (tanto per non fare nomi) bensì di proporre la candidatura di una donna al Quirinale, quale che sia, perché “i tempi sono maturi”.

 

Dunque senza un “sistema” e una cultura politico-istituzionale di riferimento comune, arriviamo all’appuntamento solenne del Colle, che potrà riservare sorprese: come la proposta di insediare al vertice della Repubblica insieme con Draghi – candidato naturale e di equilibrio – anche un semipresidenzialismo “di fatto” che prevede un trasferimento del potere esecutivo. Naturalmente il semipresidenzialismo non è un tabù ma la Costituzione va rispettata, semmai riformata, non aggirata strada facendo. E in ogni caso tutto dovrebbe avvenire alla luce del sole, con una discussione aperta e con il controllo della pubblica opinione, non come risultato estemporaneo di circostanze casuali, incrociate con una presunzione dello “spirito del tempo” spacciato per volontà popolare.

 

Lo spirito del tempo, infatti, può avere torto, soprattutto quando è sedotto da scorciatoie e semplificazioni (oppure blindato da uno stato di emergenza permanente). In questo passaggio così delicato della storia della Repubblica, di tutto abbiamo bisogno meno che di una democrazia “di fatto”. Non avendo capitalizzato questi mesi di delega “tecnica” per ritrovare un’autorevolezza e riprendere un ruolo di indirizzo, i partiti ora dovrebbero affrettarsi a ricostruire un sistema che possa preparare il ritorno della politica. Senza la quale il Palazzo del potere resta comunque vuoto.