Di certo il bipolarismo così com’è non regge: spinge allo scontro mentre nel Paese, con tutta evidenza, cresce la volontà di fare squadra.

Indubbiamente il Partito democratico esce rinfrancato da queste elezioni amministrative, specie per il voto nelle grandi città. Si comprende pertanto l’esultanza. Non è oro tutto quel che luccica, s’intende; in Calabria, ad esempio, la partita si è chiusa male, con tracce palesi di amarezza; come pure a Roma, dove il risultato di Gualtieri supera di poco quello conseguito da Giachetti nel 2016, finora considerato il punto più basso e incongruente dell’esperienza riformista. Per giunta, nella Capitale i Dem rimangono inchiodati a un modesto 16 per cento, sotto la percentuale che raccoglievano i Ds da soli, prima cioè della formazione del Pd. Tuttavia il segno generale è positivo, a conferma della scarsa attrattività di un centrodestra borioso e squilibrato, senza un progetto politico coerente. 

Da questo a dire che il messaggio uscito dalle urne rassicuri sulle prospettive future, ce ne corre. Letta, per primo, ne è consapevole. Non a caso ha voluto sottolineare come la vittoria a Siena sia dipesa, a suo dire, da uno sforzo di apertura a mondi diversi, che si è anche tradotto nel fare a meno del simbolo di partito. Ma evidentemente non basta. È solo un tonico, qualcosa che sfiora l’aspetto emotivo, non la certezza di una ripresa duratura. Certo, vuol dire che ci sono senz’altro i margini per organizzare una politica di consolidamento, a patto che si abbia una più lucida consapevolezza di cosa possa e debba significare il rilancio di una proposta di centrosinistra, avendo scrupolo di non cedere perciò alla riedizione pura e semplice del motivo (post ideologico) caratterizzante la sinistra tradizionale.

Sfugge, allora, a questa esigenza di chiarezza la battuta – si spera che tale sia e tale resti nel crogiolo delle dichiarazioni a caldo – che il leader del Nazareno ha dedicato alla negativa performance del centrodestra: avrebbe perso, nella sua analisi stringata, per la mancanza di un nuovo federatore, capace oggi di replicare ciò che Berlusconi seppe fare nel lungo ciclo inaugurato con l’avvento della cosiddetta seconda repubblica. Orbene, la critica non può limitarsi al “federatore” quanto estendersi più correttamente alla “federazione”, ovvero alla forma politica della coalizione, in sé e per sé, dato che in Italia essa unisce moderati e nazional-sovranisti a dispetto della logica di sistema operante in larga parte d’Europa. 

Letta sorvola sull’anomalia del centrodestra italiano perché interessato, evidentemente, alla salvaguardia di un bipolarismo purchessia, lasciando in ombra quella remora primordiale che sottostava alla visione di un centro alla De Gasperi e Moro, per il quale non era praticabile la legittimazione della destra nostalgica. Sta qui la differenza abissale con il berlusconismo e qui, al tempo stesso, la incontaminata valenza della cultura democratica dei cattolici. Martinazzoli ha resistito alla polarizzazione tra destra e sinistra perchè, in buona sostanza, essa comportava lo sdoganamento del Movimento Sociale. È una lezione abbandonata in fretta e furia per un travisamento della novità che doveva accompagnare la fuoriscita dal tempo della Guerra fredda: modificata la legge elettorale, emblema della rottura del sistema consociativo, sarebbe infine nata una superiore dialettica democratica all’insegna di alcuni valori unificanti. 

Gli sviluppi hanno dato altri esiti, con l’impennata negli ultimi anni dell’equivoco rappresentato dal Movimento 5 Stelle. Oggi però il pericolo si annida nel possibile connubio di moderatismo e sovranismo, un’ipotesi ovunque contrastata in Europa dalle forze autenticamente democratiche. Dunque, Letta avrebbe tutto l’aggio di polemizzare sulla distanza abissale tra Forza Italia e l’Unione cristiano-democratica tedesca, un’aggregazione centrista che non contempla l’ipotesi di alleanza con la destra estrema, né al centro né in periferia. Per non parlare della Francia e quindi di Macron, il Presidente della rinascita di un centro a base riformista, tanto ambizioso da risultare vittorioso rispetto a socialisti e gollisti, ma sempre valendo il richiamo, in ogni caso, al tradizionale “patto repubblicano” che all’establishment di Parigi vista qualsiasi apertura alla destra lepenista. Questo avviene in Europa.

Si tratta di capire, allora, se l’input derivante da queste elezioni amministrative, in attesa comunque dei ballottaggi più importanti, in primis quello di Roma, possa ridursi a una furba polemica che invece di “pretendere” l’enucleazione di una limpida scelta moderata, senza più connivenze con la destra nazional-sovranista, si accomodi tatticamente sulla messa a nudo di una carenza di leadership, ovvero di un sostituto “degno” di Berlusconi. Non è una prospettiva adeguata alla necessità di un cambio di passo dopo che l’efficace azione di governo assicurata da Draghi ha già mutato i connotati della lotta democratica. Il punto è che proprio questa novità, per la quale l’opinione pubblica reclama uno sforzo di coerenza, s’incarica di evidenziare la lentezza di riflessi delle forze riformiste, e dunque del Partito democratico. 

Letta, insomma, deve trarre conclusioni meno affrettate, anche perché la crescita dell’astensionismo – a Roma si è andati sotto la soglia critica del 50 per cento degli aventi diritto – è una implicita conferma dell’esistenza di un elettorato che vede ed apprezza l’impegno di Draghi, ma alla luce dei fatti non vede e non apprezza la latitanza di chi dovrebbe sostenere o innervare una posizione confacente alla forza persuasiva del “draghismo”. Chi avrebbe dovuto votare stavolta l’elettore interessato al dispiegamento di una politica che  sfrutti, in senso buono, la sapienza di governo dell’attuale Presidente del Consiglio? Di certo il bipolarismo così com’è non regge: spinge allo scontro mentre nel Paese, con tutta evidenza, cresce la volontà di fare squadra. In fin dei conti, con la ricostruzione economica che il Pnrr prefigura torna ad imporsi –  a monte –  la questione di una nuova alleanza tra il centro e la sinistra, con l’obbligo così, per l’uno e l’altra, di aprirsi al rinnovamento delle proprie piattaforme ideali e programmatiche.  

O l’alternativa è presentarsi nel 2023 con l’abbellita riformulazione delle vecchie alleanze?