Ci sono definizioni che diventano presto obsolete perché non sanno più descrivere il loro oggetto o perché non corrispondono più ad un’ immagine condivisa e a noi contemporanea.
Ce ne sono poi alcune che reggono alle mode e mantengono un aggancio con la realtà e altre ancora che diventano veri e propri paradigmi di pensiero, forse ben oltre il loro senso originario, anche quando le parole si allontanano dalla loro storia o dalla Storia sono poi a loro volta smentite .

Se queste sovrapposizioni ma anche se questi sdoppiamenti e abbandoni si riferiscono ai valori che sovrintendono alle nostre azioni può persino accadere che un’intera generazione ne venga condizionata.

Stiamo parlando di una canzone: ma quella definizione di Giorgio Gaber sulla libertà come partecipazione è diventata nel tempo una vera e propria icona, un modello ideale ma anche esistenziale a cui si è ispirata una lunga stagione di comportamenti sociali e persino di militanza politica.

Correvano gli anni della contestazione, della socializzazione, dei collettivi, della condivisione, della mobilitazione, delle lotte di massa.
Anni in cui la piazza non era più l’agorà , il luogo degli incontri tra persone e degli scambi di idee e di beni, la sede deputata ai mercati.

Era soprattutto un luogo di manifestazione e di scontro, di protesta e di dissenso ma anche di minacce e di eversione, dove si misurava lo spazio non come esercizio di libera scelta ma come prova di forza e di possesso, per segnare una presenza e per tracciare un confine.
Molti di noi sono stati in quelle piazze e in molti ci torneremo ogni volta che ce ne sarà bisogno.

Ma l’idea di partecipazione ha segnato tracce profonde anche nell’agire delle nostre quotidianità e delle nostre abitudini, oltre il senso di una chiamata all’appello dai toni ultimativi.
Molta parte di quella stagione è sopravvissuta al di là delle ragioni che la rendevano necessaria: nel modo di pensare, nei comportamenti, nelle abitudini è rimasto sottotraccia un surrogato utilitaristico e commerciale di quelle presenze.

L’aver associato l’immagine della libertà ad una dimensione comunitaria e partecipativa ci ha reso tutti attori sociali, sfocando a poco a poco la dimensione individuale: solo “prendendo parte” agli eventi, partecipando alle azioni, aggregandoci gli uni agli altri potevamo dare un senso compiuto alla nostra stessa identità di persone.
Dimenticando che ai tempi e nei luoghi delle dittature più feroci le piazze diventavano la mascella volitiva del potere o costituivano il ventre molle del corpaccione plebiscitario e certamente nei bagni di folla si potevano scorgere presenze ancor più numerose, braccia tese, consensi viscerali, ostensioni di masse accomunate da simboli e bandiere.
In tempo di pace ci è stato spiegato che dovevamo privilegiare la ricerca della condivisione e del consenso, annullando o valorizzando le differenze a vantaggio di una dimensione comunitaria.

Una valanga di parole ha sommerso la nostra vita, cercavamo la libertà nell’uguaglianza stemperando i meriti e i demeriti in un tutto indistinto.
Ci è stato consegnato un mondo più giusto? Il controllo sociale ha esercitato la dovuta vigilanza o si è limitato ad omologare i nostri vissuti? Media e comunicazione ci hanno reso davvero liberi?

A un certo punto la piazza è stata sostituita dai centri commerciali e la dimensione collettiva del vivere sì è ispirata a meno nobili ideali e a più miti pretese consumistiche.
Ma sullo sfondo la piazza è rimasta come luogo del ritrovarsi esprimendo slogan condivisi: la metafora dell’identità collettiva che stempera le divergenze.
Si sono affermati stereotipi e luoghi comuni adeguati ai tempi ma questo dovere collettivo dell’essere presenzialisti e motivati, questa regola non scritta della redenzione e del riscatto che passano attraverso l’uguaglianza e la partecipazione finiscono per appiattire la nostra vita e per limitare le nostre aspirazioni.
Vedo mani sapienti che governano le nostre azioni, che studiano e pianificano il calendario della nostra vita, che ritualizzano le nostre giornate, che alternano con un’occulta regia anche le nostre più insignificanti abitudini.

C’è bisogno di estro nelle nostre scelte, di svincoli e sdoganamenti alla criticità della riflessione, di valorizzazione delle nostre occultate personalità, di pensiero divergente.
Abbiamo invece imparato che vince chi resta, chi resiste, chi si impegna, chi risponde alla chiamata, chi dice “ok, mi importa, voglio fare la mia parte”.

Una concezione “riempitiva” del tempo e dello spazio: darsi da fare, associarsi, confrontarsi, occuparsi di qualcosa, alzare la mano e parlare, intervenire, dire la propria, in una parola “partecipare”. Per non parlare dell’universo incognito dei social e delle relazioni a mezzo chat.

Spaventano forse il silenzio e la sosta, ci sembrano vuoti e privi di senso: bisogna agire.
Eppure ognuno è alla ricerca di una appagante nicchia esistenziale, di un luogo dove l’astensione e il distacco dalle cose ci restituiscano un’originaria identità perduta.
Ma vince davvero chi resta, agisce e partecipa?
Non siamo forse autenticamente infastiditi da tutto il frastuono delle presenze che ci circondano?

Possiamo o non possiamo più esercitare il libero, gratuito possesso della nostra anima?
Libertà non sarà forse lo “stare sopra un albero” ma quell’idea dello “spazio libero”, del “gesto e l’invenzione” dobbiamo ammettere che risulta stuzzicante.
Ci sono ancor spazi liberi nel nostro vivere, da percorrere generando opinioni, senza portarci appresso la catena dei condizionamenti e delle remore sociali?
Trovare un punto di equilibrio nei rapporti tra noi e il mondo è una sfida che si rinnova ogni giorno.

La partecipazione può essere un dovere più che una scelta, specie quando diventa un tantino pervasiva ed opprimente.
Il ruolo sociale ci appartiene per natura ma il doverismo partecipativo che ci viene ritagliato addosso può risultare alla lunga stretto e persino soffocante.
Quel convergere di masse sincrone, spinte da nobili ideali o dalla ricerca di nuove forme di presenze alternative non risulta sempre convincente: sotto quel pathos partecipativo si nascondono a volte motivazioni istintive sulle quali poi lo scorrere degli anni esercita dissolvenze e distinguo.

Raramente la piazza partorisce nuovi leader, figure da elevare al di sopra della omologazione: più facile che i valori nobilitanti dell’innovazione e del cambiamento emergano dallo studio, dalla conoscenza, dalla riflessione, dall’esperienza e dalla competenza provata.

Da Fedro a La Fontaine a Orwell gli animali hanno spesso raffigurato simbologie umane.
Ma attribuire nuove allegorie e cercare metafore alternative alla dimensione antropologica è una minusvalenza di pensiero: per questo le sardine – al di là dei significati simbolici che ci sforziamo di attribuire loro- sono se mai un passo indietro ripensando ad epoche come l’Umanesimo e il Rinascimento dove l’uomo – non i pesci – erano collocati al centro del mondo e delle sue potenzialità. Questa visione ‘ittica’ del mondo non mi persuade, già ci aveva provato il grillismo a scardinare le istituzioni come scatole di sardine, appunto.
Che si tratti dunque di quelle un tempo imprigionate dai partiti ed ora liberate per esercitare più avanzate forme di democrazia?

Sono le stesse sardine ieri compresse ed oggi artefici di un nuovo modello di società, ispirato magari a valori antichi? Occorre forse riflettere pacatamente, più che sentirsi omologati e compattati in una moltitudine ondeggiante alla ricerca di nuovi capi e di mirabolanti congetture sul futuro.
Il sentirci davvero liberi e realizzati in una dimensione esclusivamente partecipativa è sovente più una finzione, un rituale, un’abitudine che un fermo, intimo, esaustivo convincimento.

A lungo andare l’eccesso di partecipazione genera crisi di rigetto, complicazioni relazionali e produce esiti contrastanti. Non dimentichiamo il tempo in cui le adunate oceaniche diventarono chiamata alle armi: difficile restare pacifisti in piazze confinanti e oppostamente schierate.

Occorre dunque conservare l’uso del pensiero critico che è premessa della propria personale libertà – sommo principio non negoziabile – e questo dovrebbe valere per ogni collocazione politica.