L’idea di partito e l’idea di Europa in una rilettura di Luigi Sturzo

Appunti per cattolici impazienti di un ritorno in politica e in vista delle prossime elezioni europee

Sturzo / note di Giuseppe Sangiorgi per gli “incontri della stazione” di sabato 2 marzo 2019 sul tema: “Essere liberi e forti oggi. Quale politica a cento anni dall’Appello di Luigi Sturzo?”, promosso dalla Conferenza episcopale del Lazio nella sala riunioni attigua alla Cappella della stazione Termini a Roma. Relatori padre Francesco Occhetta e Giuseppe Sangiorgi, introduzione del vescovo di Velletri monsignor Gaetano Apicella, conclusioni del Cardinale vicario di Roma e presidente della Conferenza episcopale del Lazio monsignor Angelo De Donatis. Coordinamento di Claudio Gessi, presidente della Commissione regionale del Lazio per la pastorale sociale.

– L’avventura dei “liberi e forti” di Luigi Sturzo conserva a cento anni di distanza il suo fascino e il suo valore che si proiettano fino a noi attraverso la dottrina del popolarismo, mantenendo vivo l’interrogativo sulla elaborazione di una politica di ispirazione cristiana. Della grande lezione sturziana vorrei fare, in questo nuovo “incontro della stazione”, due sottolineature specifiche: la prima riguarda l’idea di partito per un certo risveglio, anche impaziente, che si manifesta oggi in una parte del mondo cattolico a riproporre questo tema nella nuova realtà politica del Paese; la seconda sottolineatura è la concezione dell’unità europea di Sturzo,trovandoci alla vigilia di un rinnovo del Parlamento di Strasburgo il prossimo 26 maggio, particolarmente al centro di polemiche da parte dei nuovi “sovranisti” contrari alla prospettiva unitaria.  

– Ai suoi tempi Sturzo ebbe un coraggio straordinario a fare il partito del quale quest’anno celebriamo il centenario. Lui stesso parla in proposito di “audacia”. Il suo primo manifesto politico peraltro non è quello dei “liberi e forti”, ma il discorso tenuto a Caltagirone, la sua città natale, il 29 dicembre 1905 nel quale auspicava la nascita di un partito nazionale non dei cattolici ma di cattolici, laico, aconfessionale e svincolato dall’autorità ecclesiastica. Sturzo si muoveva in un contesto nel quale, ancora pochi anni prima, la Conferenza episcopale siciliana aveva rivendicato la “totale e assoluta dipendenza dai rispettivi vescovi” delle associazioni cattoliche. Lui si tenne lontano dall’idea che il Partito popolare fosse una articolazione dell’Azione cattolica e delle autorità ecclesiastiche. Il discorso di Caltagirone non ottenne l’imprimatur ecclesiastico: la Santa Sede non intendeva dare in nessun modo l’impressione, allora, di avallare l’dea di un partito. L’anno precedente, il 1904, con un improvviso atto d’imperio, Pio X aveva chiuso l’Opera dei Congressi, nel timore che essa venisse “inquinata” dalla prima Democrazia cristiana fondata da Romolo Murri, sacerdote che per la sua passione politica in anticipo sui tempi venne sospeso a divinis nel 1907 e scomunicato nel 1909.

– Luigi Sturzo seppe invece aspettare, ed è il clima nuovo del dopoguerra a permettergli di realizzare il suo disegno nel gennaio del 1919, in un Paese che vede il progressivo affacciarsi dei nuovi soggetti sociali sulla scena pubblica. Se in Europa i partiti sono figli della rivoluzione francese, in Italia compaiono con la Camera Subalpina del 1848, destinata a essere in nuce il futuro Parlamento nazionale, e si strutturano in formazioni permanenti tra fine Ottocento e inizio Novecento, sulla falsariga del modello organizzativo inaugurato in Europa dai partiti socialisti. In questo nuovo contesto egli definisce quello popolare come “un partito a forte contenuto democratico e che si ispira alle idealità cristiane, ma che non prende la religione come elemento di differenziazione politica”.

– Si compie così il lungo percorso del cattolicesimo politico italiano, il cui albero genealogico inizia a fine Settecento con le “amicizie cristiane” in Piemonte, prosegue con il “neo guelfismo” risorgimentale, gli “uomini del ‘79” intorno al conte Campello a Roma, le grandi figure di Antonio Rosmini, Giuseppe Toniolo, il “programma di Torino” del 1901, la figura di Murri: alcuni nomi e circostanze soltanto di un pantheon storico e culturale cattolico straordinariamente vasto e significativo. L’Appello ai Liberi e Forti è del gennaio 1919, la fine del non expedit seguito alla presa di Roma è del novembre 1919: una data che “deve segnarsi – afferma Sturzo – come uno dei passi più decisivi verso la conciliazione fra chiesa e stato in Italia” (Il Partito popolare italiano, volume primo 1919 – 1922, Luigi Sturzo, Nicola Zanichelli editore, Bologna 1956).

– Fin dall’inizio il sistema di partiti è bersaglio, non solo in Italia, di riserve che ne pongono in discussione ruolo e identità. Uno studioso russo, Moisei Ostrogorski, in un saggio del 1903, Democrazia e partiti politici (Rusconi, Milano 1991), dava all’epoca questo giudizio impietoso: “[…] con il sistema attuale dei partiti permanenti, incaricati di programmi omnibus, un candidato o un deputato è nella stragrande maggioranza dei casi un ciarlatano. Per conquistare al partito quanti più elettori possibile deve fare promesse a destra e a manca, e poiché gli è impossibile mantenerle, diventa un bugiardo di professione, quantunque nel fondo non sia più disonesto degli altri uomini. […] confusa con il partito l’organizzazione permanente diventa un fine, al quale finisce di subordinare tutto […] quanto più l’organizzazione è perfetta, tanto più corrompe il partito e deprime la vita pubblica”.

– Sembra un commento alla situazione italiana dei nostri anni. Ostrogorski, per arrestare una tale deriva teorizzava formazioni di carattere temporaneo con programmi limitati e precisi, e dunque verificabili da parte dei cittadini elettori. Non hanno maggiore fortuna, partiti e uomini politici, nelle Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann (biblioteca Adelphi, a cura di Marianello Marianelli e Marlis Ingenmey, Milano 1997), il saggio del grande letterato tedesco che dà voce alle diffuse critiche di inizio Novecento sul rapporto fra democrazia e partiti non solo nella Germania dei suoi tempi. Nell’immediato primo dopoguerra ci sono in Germania le riflessioni del sociologo Max Weber (La politica come professione, introduzione di Luciano Cavalli, Armando editore, Roma 2010), che Sturzo conosce anche se non apprezza particolarmente. Weber propone l’“etica della responsabilità” contro la visione di uno Stato concepito come “una associazione per il dominio che, nell’ambito di un territorio, ha cercato con successo di monopolizzare l’uso legittimo della violenza come mezzo di dominio”.

– Weber distingue tra il vivere per la politica e il vivere di politica. Teorizza la figura carismatica della leadership, con le ideali motivazioni che devono sorreggerla, salvo la tragica deformazione di una tale visione che verrà con le dittature europee. Negli stessi anni in cui Sturzo è a Londra, Simon Weil, durante il suo analogo esilio inglese che si conclude con la prematura morte nel 1943, scrive il Manifesto contro i partiti politici (Una Costituente per l’Europa. Scritti londinesi, a cura di Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito, Castelvecchi, Roma 2013), teorizzando nel solco di Jean Jacques Rousseau il sistematico ricorso all’istituto referendario per un costante controllo diretto della politica da parte dei cittadini. Ancora in Inghilterra arrivano qualche anno dopo le denunce politiche di George Orwell, alias Eric Blair, scrittore e intellettuale di sinistra, severa coscienza critica del movimento socialista al quale appartiene (Orwell o l’orrore della politica, Simon Leys, Irradiazioni, Roma 2007).

– La rassegna delle posizioni critiche continua fino a chi, come Jurgen Habermas, filosofo, per ovviare alle degenerazioni del sistema politico e dei partiti concepisce un modello di democrazia definito di “politica deliberativa”, basato “sulle condizioni comunicative entro cui il processo politico può presumere – compiendosi in tutto il suo arco secondo modalità consultive e dibattimentali – di produrre risultati razionali” (L’inclusione dell’altro Studi di teoria politica, Jurgen Habermas, a cura di Leonardo Ceppa, Feltrinelli, Milano 2008). Per Habermas il cittadino, quanto più è coinvolto nel processo della decisione politica, tanto meno è costretto a comportarsi, in sostanza, secondo quella teoria della “razionalità limitata” enunciata da Herbert Simon, economista, premio Nobel nel 1978. Osservatore del gioco degli scacchi, Simon spiega che il cittadino, quando non sa valutare le conseguenze delle alternative che gli si pongono, reputa incomplete le informazioni che gli si danno e ritiene i problemi che è chiamato a risolvere troppo complessi per lui, non punta alla scelta ottimale ma si rifugia in quella “sufficiente”, spesso conservativa della situazione che si vorrebbe cambiare (emblematiche al riguardo sono le due bocciature popolari del 2006 e del 2016 della riforma della Costituzione, quando si è chiesto agli italiani se confermavano di modificare d’un colpo prima 52 e poi 47 articoli della Carta).        

– Sturzo è dentro un tale contesto critico, conosce le insidie che il dare vita a un partito genera. Per questo delinea in modo concreto il programma del Partito popolare nei dodici punti allegati all’Appello ai Liberi e Forti. Il Partito popolare nasce per realizzare quegli obiettivi, all’interno di una dottrina politica, il popolarismo, che concepisce le istituzioni in un rapporto “di servizio” alla persona umana forte dei suoi propri diritti di cittadinanza, anteriori allo Stato dirà Giuseppe Dossetti alla Costituente, che lo Stato deve riconoscere, non concedere. Sturzo definisce i punti specifici che danno il carattere proprio al Partito popolare: “la rivendicazione delle libertà (religiosa, scolastica, economica, amministrativa); la difesa morale e sociale delle classi operaie; il decentramento statale e il self – government locale, anche nelle regioni” (Scritti storico politici 1926 -1949, Luigi Sturzo, Edizioni Cinque Lune, Roma 1984).

– Sono i cardini del popolarismo, dai quali ancora oggi ripartire per dare concretezza a una linea politica di “centro” che non si può continuare soltanto a enunciare ma che va sviluppata ed elaborata nel concreto perché una cultura di governo si trasformi in una proposta di governo, che implichi a sua volta una organizzazione che la sostenga. Per questo chi scrive ha immaginato le “schede della democrazia” per dare ordine, continuità e omogeneità a questo percorso insieme di elaborazione e di coinvolgimento dei tanti che nel Paese si sentono oggi senza rappresentanza politica: e sono la metà dell’elettorato italiano, come ci indicano le percentuali di votanti di tutte le ultime tornate elettorali. Ma questo può avvenire solo su basi organizzative del tutto nuove rispetto ai partiti di massa del passato. Va ricordato un altro elemento centrale del pensiero di Sturzo, anch’esso di attualità: la sua decisa contrarietà ai nazionalismi, inconciliabili con il suo concetto democratico dello Stato basato sul decentramento delle funzioni e delle attività.

 – Questa contrarietà si salda all’europeismo, che Sturzo elabora sulla esperienza della Grande Guerra causata dal prevalere dei nazionalismi. Anche qui il passato si collega all’oggi. Nel primo Novecento c’è tutta una corrente nella Chiesa, che vede come protagonista Benedetto XV e si sviluppa lungo la linea di un “internazionalismo cattolico”, che fa da sfondo alle posizioni politiche di Sturzo. Questa corrente si collega, al di là dell’Atlantico, ai “14 punti” di Thomas Wilson, il manifesto del 18 gennaio 1918 del presidente degli Stati Uniti d’America, dal quale a sua volta muove la sfortunata avventura della Società delle Nazioni, organismo che rappresenta la prima concretizzazione di un nuovo “principio societario” alla base di una solidarietà fra gli Stati che avrebbe dovuto sostituirsi all’uso prevalente della forza come strumento regolatore dei rapporti fra gli Stati. (Santa Sede e Società delle Nazioni, Benedetto XV, Pio XI e il nuovo internazionalismo cattolico, Americo Miranda, con prefazione di Alberto Melloni, edizioni Studium, Roma 2013, e Il nuovo papato, sviluppi dell’universalismo della Santa Sede dal 1870 a oggi, Annibale Zambarbieri, Edizioni San Paolo, Torino 2001).

– Sturzo elabora la sua visione europea in un saggio scritto a Londra fra il 1926 e il 1928, La Comunità internazionale e il diritto di guerra, e in una serie di articoli comparsi in quegli anni in Francia e in Inghilterra. È uno dei pionieri europei  ad avere la chiara prospettiva politica sui modi con i quali battere i nazionalismi e assicurare i diritti delle minoranze in Europa, e con esse i diritti degli Stati più piccoli rispetto ai più grandi e potenti. Scrive nel 1929: “[…] simile politica non può che essere una premessa verso un più concreto e alto ideale, quello degli Stati Uniti d’Europa. Nel quadro di una larga federazione, potranno esistere ed avere vitalità propria non solo i grandi Stati unitari come la Francia e l’Italia, e le piccole unità statali come il Belgio e la Svizzera, ma anche le minoranze autonome, sia pur unite ai rispettivi Stati come potrebbero essere l’Alsazia, il Sud Tirolo e la Croazia. Gli Stati Uniti d’Europa non sono un’utopia, ma soltanto un’ideale a lunga scadenza, con varie tappe e con molte difficoltà. […] il nucleo centrale del problema risiede nei due Stati antagonisti Francia e Germania: un’intesa fra i due con l’assenso della Gran Bretagna è la condizione sine qua non della soluzione del problema europeo”. Sturzo ha molto chiara la distinzione fra esigenze nazionali e spirito nazionalista. (Il problema delle minoranze in Europa, in Scritti Storico politici 1926 – 1949, già citato).   

– Altre menti europee illuminate hanno in quegli anni la stessa visione. Tra queste vi è il socialista francese Aristide Briand, premio Nobel per la pace nel 1926, più volte presidente del consiglio, anche lui sostenitore del progetto di una unione federale europea. Nella logica di dare vita a unioni continentali omogenee c’è l’idea di costituire un gruppo paneuropeo che si affianchi a un gruppo panamericano, al Commonwealth britannico, a una federazione russa e all’Oriente asiatico. C’è nel 1928 il “patto Kellogg”, firmato dal segretario agli esteri americano Frank Kellogg e Aristide Briand, teso anch’esso a creare solidarietà sovranazionali fra gli Stati e scongiurare il pericolo di guerre. Sturzo a sua volta a partire dal 1920 è protagonista di intese con gli altri partiti cattolici europei, fino alla creazione di una Internazionale democratico cristiana che durerà fino al 1932, portata avanti negli anni da un’altra luminosa figura del pantheon cattolico, Francesco L. Ferrari.

– Alla vigilia delle prossime elezioni europee, i cattolici italiani sono i testimoni di questa straordinaria ricchezza di vicende storiche, mosse dalla passione civile e dalla idealità di generazioni di intellettuali e di esponenti politici che si sono susseguite nell’arco di oltre un secolo. Di tutto ciò non c’è traccia nel dibattito elettorale in corso e nei programmi con i quali i partiti si presentano a chiedere il voto dei cittadini. Immemori della lezione che viene da questa lunga storia – in virtù della quale l’Europa è oggi la maggiore area stabilizzata di pace del mondo – gli esponenti politici più gettonati dai mezzi di comunicazione ostentano anzi insofferenza e avversione verso l’ideale europeo, confondendo le critiche da fare a organismi e assetti comunitari sempre migliorabili, con l’altezza degli obiettivi politici da raggiungere.

– Il problema non è il rimpianto di quanto i cattolici hanno fatto ieri, è la responsabilità oggi di non essere capaci di dare nuovo senso alla storia democratica del Paese.