Liliana Ocmin: Nel corretto uso del linguaggio il superamento degli stereotipi di genere

Il linguaggio, dunque, quello corretto, può divenire invece punto di forza nel cammino verso la parità.

Articolo a firma di Liliana Ocmin (edizione odierna di Conquiste del lavoro) 

Come Coordinamento nazionale donne, abbiamo sempre sostenuto che per contrastare efficacemente le violenze e le discriminazioni nei confronti delle donne non bastano gli interventi del solo legislatore. Le leggi tendono ad imporre dei comportamenti ma di fatto non sono sufficienti a creare consapevolezza e ad educare al rispetto della dignità delle persone. Questo fa parte di un più generale processo culturale da realizzarsi in parallelo con la tutela della sicurezza. La rappresentazione della donna nei media rimane ancora oggi distorta, mortificata e ricondotta alla consueta funzione di oggetto del desiderio, da comprare, accostandola di volta in volta ad un’automobile, ad una crema, ad un letto ortopedico o ad un materasso ergonomico.

Così nelle tv nazionali e regionali. Nel Lazio, ad esempio, nonostante l’impegno del Consiglio regionale delle comunicazioni (Corecom) attraverso il Protocollo “Donne e media nel Lazio. La rappresentazione femminile sulle TV regionali”, sottoscritto con istituzioni, media e associazioni, emerge “un’informazione ancora prevalentemente maschile nei contenuti per la quale la donna è “notiziabile” solo in casi di cronaca e soprattutto in quanto vittima”. Anche nell’applicazione delle norme capita spesso che vengano disattesi i più elementari obiettivi educativi che sottendono alle stesse, rendendo più difficile lo scardinamento di stereotipi, convinzioni e rappresentazioni errate della figura femminile all’interno della nostra società. Quante volte abbiamo assistito a pronunciamenti da parte dei giudici che hanno utilizzato espressioni “infelici” e poco rispettose della dignità della donna? “Troppo brutta per essere stuprata”, sentenzia la Corte d’Appello di Ancona, oppure “l’ha uccisa perché in preda ad una tempesta emotiva”, le fa da eco il Tribunale di Bologna.

Al di là del rispetto che ci deve essere per ogni sentenza, non possiamo condividere l’uso di un linguaggio offensivo ed inappropriato, non incanalato in quel perimetro di cambiamento culturale riconosciuto come humus essenziale per lo sviluppo della pari dignità fra uomo e donna. Perché le parole hanno il loro peso e spesso possono ferire “più della spada”. Lo ha dimostrato anche il dibattito che si è sviluppato durante la tavola rotonda organizzata da Cgil Cisl e Uil in Friuli, con il patrocinio del Comune di Palmanova, che ha messo in evidenza il rapporto stretto tra l’uso delle parole e il radicamento degli stereotipi di genere che discriminano e rendono “ordinarie” le violenze e le sopraffazioni, con conseguenze a volte terribili, come si è visto in questi giorni con il caso choc della diciassettenne olandese stuprata in tenera età che, in preda ad una lunga e profonda depressione, ha chiesto ed ottenuto la morte per eutanasia, un epilogo da brividi che interroga ad ampio spettro le nostre coscienze. Personalmente lo ritengo un fallimento per l’intera umanità, anche per i non credenti.

Il linguaggio, dunque, quello corretto, può divenire invece punto di forza nel cammino verso la parità. Abituarci, ad esempio, all’uso del femminile nel definire le singole professionalità e le diverse funzioni all’interno delle relazioni sociali diventa un modo per rendere visibile chi non lo è. E ciò vale per tutti quelle espressioni, confinate nel cosiddetto neutro-maschile, che rendono impercettibili le donne. Per questo abbiamo voluto dar vita in seno al Coordinamento nazionale ad uno specifico gruppo di lavoro con l’obiettivo di avviare riflessioni culturali volte a scovare gli stereotipi proprio nell’uso della lingua e arrivare a definire specifiche proposte per rispondere all’esigenza di femminilizzazione della nomenclatura professionale collegata al mutare della condizione femminile, in linea con quanto esiste già a livello internazionale.

Vogliamo che sia riconosciuta, inoltre, la parola femminicidio, attualmente non presente nelle leggi italiane e in quelle europee, come termine giuridico unitamente alla promozione di un codice organico contro la violenza di genere, anche attraverso la spinta di un’apposita Direttiva comunitaria.
Con questa consapevolezza e con l’impegno condiviso a tutti i livelli possiamo superare l’ostacolo rappresentato dalla cultura maschilista ancora dominante e realizzare un giusto equilibrio tra i due generi.