L’ITALIA DEGLI ASTENSIONISTI SCODELLA IL PRIMO GOVERNO A GUIDA DI UN PARTITO POST-FASCISTA.

È il trionfo della Meloni. Tuttavia i numeri indicano che la maggioranza uscita dalle urne non è quella dei giorni fosforescenti del berlusconismo. Gli sconfitti, invece, hanno tutti qualcosa da farsi perdonare. Il Pd può reggere a questa sconfitta storica?

Si poteva sperare in un soprassalto di partecipazione come ultimo baluardo all’ondata di destra, altrimenti irrefrenabile per la disarticolazione dello schieramento dei riformisti di centro sinistra. Invece l’Italia del disincanto e della frustrazione ha preferito disertare le urne regalando all’astensionismo un terzo dell’elettorato, ma soprattutto assecondando, con questo suo volo in parapendio verso il nulla della politica, la vittoria della Meloni. Il risultato, per effetto del Rosatellum, determina l’annuncio di un nuovo governo, per la prima volta a guida dei post-fascisti. Non deve sorprendere, allora, che lungo l’asse Parigi-Bruxelles-Berlino si manifesti l’immediato irrigidimento dell’Europa: il voto degli italiani cancella l’esperienza di Draghi, facendo venire meno un supporto di autorevolezza e competenza all’azione di coordinamento dei principali partner dell’Unione.

I numeri indicano che la maggioranza uscita dalle urne non è quella dei giorni fosforescenti del berlusconismo. La sua minire consistenza è mascherata dall’effetto prodotto dal sistema elettorale. La redistribuzione dei consensi nella stessa area – di questo fondamentalmente si tratta analizzando le percentuali di ciascun partito – premia Fratelli d’Italia a tutto svantaggio di Lega e Forza Italia. Nelle elezioni europee del 2019, utili come punto di riferimento per la sostanziale corrispondenza del risultato ottenuto allora dal M5S a confronto con il dato odierno, l’insieme del centro destra raggiungeva all’incirca il 50 per cento dei voti. In tre anni la coalizione ha perso quasi sei punti e nondimeno ha stravinto le elezioni di questo 25 settembre. Tuttavia, sul piano strettamente politico, i problemi non mancano. Ora la Meloni si ritrova al fianco due alleati difficili, entrambi indotti, per ragioni diverse ma convergenti, ad esercitare un ruolo dialettico, se non conflittuale: Salvini in ragione dell’inevitabile ricerca di un riposizionamento strategico della Lega, anche a prezzo della sua sostituzione alla guida del partito; Berlusconi, invece, per una patente d’insostituibilità nei rapporti con l’establishment europeo (ammesso che la sua credibilità, già scarsa in passato, sia adesso effettivamente apprezzata).

Che dire degli sconfitti? Ognuno di loro si aggrappa a una verità secondaria, chi rivendicando una tenuta elettorale inaspettata (Conte), chi facendo leva sulla novità del progetto accolto da una minoranza qualificata degli italiani (Calenda), chi dando mostra di residua potenza per essere comunque il rappresentante più forte dell’opposizione (Letta). In realtà, manca all’appello qualcosa che la politica non concede mai agli avventurosi: il riconoscimento, anche dopo la sconfitta, della bontà di un’azione spericolata. Dalle elezioni esce a pezzi soprattutto il Pd, tanto che la sua fisionomia di “partito unico del riformismo” risulta decisamente compromessa. C’è da chiedersi se il gruppo dirigente, chiusa la parentesi Letta, saprà riprendersi da questa brutta capitolazione che mette in evidenza l’inadeguatezza di una proposta accentrata sul mito di una sinistra risorgente dalle ceneri di un passato illeggibile, fuori da una lezione coerente con il riformismo storico. Dopo la sconfitta ci può essere l’implosione, con ulteriore danno per la nostra democrazia.