I commentatori in genere sono schiavi della notizia. Perdono di profondità quando sono chiamati a guardare oltre la siepe e a disegnare nuovi scenari. Angelo De Mattia, già direttore centrale della Banca d’Italia, esprime una naturale propensione a legare il particolare al generale. Questa conversazione ha preso di mira le questioni più urgenti della crisi determinata dall’epidemia da coronavirus e tuttavia si è conclusa con il “colpo d’ala” di una citazione del Premio Nobel per l’economia, Edmund Phelps, sulla opportunità di “sospendere per qualche mese – egli dice – il sistema capitalista per salvare l’economia e insieme le vite umane”. Evidentemente siamo chiamati ad affrontare un passaggio difficilissimo che mette in gioco la tenuta del nostro modello di sviluppo e più ancora incide sulle prospettive della democrazia nel mondo, specie in Occidente. De Mattia mette a premessa una nota di ragionata fiducia sul ruolo dell’Europa, considerando che alcuni atti, come la sospensione del vincolo del 3 per cento sul deficit dei bilanci statali, mettono in risalto la volontà di reagire con mezzi e procedure non usuali a una crisi d’impatto epocale. Segnali di apertura, anche in queste ore, lasciano sperare che si ricucia lo strappo tra Europa del Nord ed Europa del Sud. Se vuole contare nel mondo l’Europa deve essere unita. Il momento eccezionale richiede un impegno altrettanto eccezionale.

Ecco, ci troviamo a un bivio che ricorda gli anni ‘30 del secolo scorso. C’è molto pessimismo in giro. Siamo destinati a scivolare, malgrado gli appelli, verso una depressione analogamente distruttiva, con forte caduta del reddito, crescente inflazione, calo della domanda e dell’occupazione?

Non sarei così pessimista perché oggi siamo molto più preparati. Conosciamo la dinamica che portò alla Grande Crisi e soprattutto abbiamo fatto tesoro dei rimedi – purtroppo tardivi – che innervarono la ripresa, con le coraggiose innovazioni del New Deal di Roosevelt. Alcuni errori non li abbiamo più ripetuti e siamo in condizione di non ripeterli nemmeno ora. Semmai occorre evitare che il dibattito sulle necessarie scelte da adottare si trascini alle lunghe, determinando qual senso di incertezza che moltò pesò sulla gestione dell’ultima crisi finanziaria, quella del 2008 determinata dalla esplosione della bolla finanziaria dei subprime. L’importante è che si esca in fretta dalla sindrome di impotenza che aggredisce l’immagine dell’Unione Europea.

Impotenza che nasce dalla paralisi…

Sì, le difficoltà non vanno ignorate. È comprensibile che la Germania, insieme ad altri Stati del nord Europa, guardi con timore alla richiesta di generiche operazioni d’intervento a sostegno delle economie nazionali più deboli, con maggiori esposizioni di tutti nel maneggiare il debito pubblico complessivo. Non è tuttavia condivisibile questa chiusura tedesca. Per contro ’Italia deve fare attenzione a non trasmettere messaggi contraddittori, come quando si dichiara di escludere la mutualizzazione del debito e poi si accenna alla mutualizzazione dei rischi connessi alla gestione del debito: si tratta di un “ibis redibis” che non aiuta a stabilizzare il giudizio dei nostri interlocutori, essendo chiaro che mettere il rischio sulle spalle di tutti implica l’oltrepassamento di una ragionevole procedura di aiuto agli Stati più colpiti dall’emergenza sanitaria.

Si dice pure che se l’Europa non risponde dobbiamo e possiamo fare da soli.

Penso che intanto facciamo bene a fissare correttamente i termini di una manovra che spetta al Governo perfezionare attraverso l’annunciato decreto previsto a breve. Innanzi tutto le risorse vanno destinate alla salute degli italiani dal momento che la pubblica opinione si attende una risposta circa la volontà di rafforzare il servizio sanitario nazionale. A ciò si aggiunge, ovviamente, la formulazione di un vari atti a sostegno dell’economia. Ecco allora il primo messaggio positivo da indirizzare ai partner europei: prendiamo di petto, seppur in via preliminare, i fattori che possono interessare la ripresa economica. Mentre si rattoppa il vestito, cercando di assicurare le tutele opportune, Conte deve mettere in campo una terapia schock sulle politiche dell’innovazione e della produttività (non solo del lavoro, ma anche del capitale), per essere all’altezza di una sfida che si prefifùgura ancora più dura sul terreno della competizione internazionale. Perciò è necessario finalizzare, fin da subito, una quota degli investimenti all’innesco di cambiamenti strutturali in grado di configurare il ruolo dell’Italia nella transizione verso quello il governatore Visco ha voluto chiamare il “mondo nuovo”.

In effetti senza l’Europa ogni prospettiva si fa più complicata e difficile.

L’Europa deve fare la sua parte. D’altronde, la chiusura dell’Amministrazione Trump – politica doganale in testa – impone una iniezione di dinamismo nell’azione coordinata dell’Unione. Se Washington chiude, Bruxelles deve aprire. Tuttavia ha ragione Gentiloni a precisare che una generica prospettazione del nuovo solidarismo, attraverso l’emissione di un bond europeo a lunga scadenza, rischia di essere un’utopia. Mi pare abbia detto, conoscendo la suscettibilità dei tedeschi, che la proposta di un tale bond non passerà mai. In ogni caso, ci sono altri strumenti che possono essere utilizzati e non necessitano di modifiche ai trattati. Vale la pena studiare finanziamenti una tantum e nuove attribuzioni alla politica comunitaria, come ad esempio l’istituzione di una forma di assicurazione europea contro la disoccupazione. In ultimo, alla Bce si può far capo per identificare procedure di sostegno finanziario molto aggressive, prescindendo per essere chiari dalle condizionalità del Mes (e quindi dal Mes tout court) in ragione dell’effetto di discredito dell’Italia sui mercati internazionali una volta accettata la tutela di organismi esterni (troika). Non escluderei infine il contributo che potrebbe fornire la Bei (Banca europea per gli investimenti) attraverso l’emissione di titoli destinati essi stessi a entrare nel portafoglio acquisti della Bce.

Eppure la Lagarde ha dato l’impressione di essere timida, se non riluttante, di fronte alle pressioni per un ruolo più incisivo della Bce.

Un conto sono le impressioni, altro sono i fatti. Una battuta della Lagarde non inficia la svolta strategica della Bce. Registriamo che la Banca di Francoforte è pronta a coprire almeno 750 miliardi di titoli, acquistandoli sul mercato secondario, per giungere a fine anno alla soglia limite di 3000 miliardi. Una richiesta giusta potrebbe essere quella di rimuovere questo limite, sicché gli operatori finanziari di tutto il mondo capirebbero che l’intervento della Banca centrale non incrocia divieti o restrizioni di sorta. Oggi, dopo la sentenza della Corte di Giustizia europea sulla legittimità del Quantitative easing, la Bce può muoversi con pienezza di mezzi e senza timori. In questo quadro, ove fosse chiarito poi che gli acquisiti dei titoli di debito non sarebbero vincolati alla percentuale di partecipazione di ogni Stato al capitale iniziale della Bce, l’Italia potrebbe confidare sulla potenziale copertura di emissioni sovrabbondanti i limiti attuali. Possiamo intuire, nella sostanza, quale sia la potenza di fuoco dell’Europa per contrastare il pericolo di una grave recessione.

Non c’è il rischio, tuttavia, che la politica monetaria si impantani in un circolo vizioso, con le banche impossibilitate a mobilitare la liquidità messa a loro disposizione? La vigilanza europea negli ultimi anni ha sconfinato nel parossismo di vincoli sempre più stretti, tanto da inibire l’erogazione di credito a sostegno delle banche all’economia reale.

Anche in questo caso abbiamo assistito a un cambio di rotta. Finora la Vigilanza ha operato in regime di totale autonomia rispetto al Consiglio direttivo della Bce, titolare sulla carta del potere ultimo di decisione. Da questo momento in avanti la responsabilità torna ad essere del Consiglio, visto e considerato che nell’immediato si è deciso, per dare forza alla politica monetaria, di alleggerire i criteri vincolanti l’attività creditizia degli istituti bancari. Teniamo presente che nel ‘73 l’Italia, con il contributo della Banca centrale, reagì allo schock petrolifero con un mix di provvedimenti che includevano anche una particolare correzione degli strumenti e degli obiettivi della vigilanza. Abbiamo un’esperienza che ci può ammaestrare sulle scelte da compiere oggi.

E qui torna ad affacciarsi la preoccupazione sulla difficoltà di contenere le oscillazione dello spread, fonte di incertezza per un Paese come il nostro impegnato a rifinanziare mese per mese una quota molto alta del suo debito pubblico. 

Vorrei ricordare che in altre epoche, negli anni ‘90, l’allora governatore Fazio si trovò a gestire l’innalzamento dello spread tra lira e marco fino a 800 punti base. Avvenne però che l’azione di contrasto all’inflazione, con atti di politica monetaria che miravano a dissuadere i comportamenti legati alle connesse aspettative di lievitazione dei prezzi, consentì di riportare successivamente il differenziale a 200 punti base. Questo risultato si consolidò con la piena adesione all’euro proprio nel quadro di una coerente politica antinflazionistica. Se è chiara la strategia, non pesa lo squilibrio che sul momento fotografa lo spread. In questo senso, un’azione portata avanti con incisività e chiarezza rende la Bce padrona del gioco e implica la tendenziale stabilizzazione di un indice sensibile, come appunto è lo spread.

Monti e Tremonti, con qualche differenza d’impostazione, hanno indicato la strada di una emissione straordinaria (Prestito Italia?)  che abbia una durata molto lunga e una remunerazione non eccessiva. Costituirebbe un atto di patriottismo per impedire che il debito ci travolga. È un’ipotesi percorribile?

Sì, a me sembra un’ipotesi percorribile. A patto però che non si accompagni a suggestioni anti-euro e quindi non alluda a una forma larvata di Italexit. Pensare infatti che questo prestito possa essere addossato alla Bce, ripristinando a livello europeo quello che era il rapporto con la Banca d’Italia prima del famoso divorzio, significa violare i Trattati e alimentare nuovi sospetti a danno del nostro Paese. Il debito va affrontato con la convinzione di poterne domare la spirale perversa con le armi di una corretta politica economica che l’Italia – insieme e non contro l’Europa – è in condizione di mettere in piedi.

Dunque, non dobbiamo preoccuparci del debito?

A questa domanda occorre rispondere con assoluta chiarezza: il debito è un fardello che poggia sulle nostre spalle. Immaginare che possa rappresentare un dato superfluo, ininfluente sulla crescita, esterno alle dinamiche dell’economia, è quanto mai fuorviante. Il debito che oggi s’attiva – probabilmente arriverà a fine anno al 160 per cento su PIL – deve essere sottomesso a un piano di rientro. Intanto preserviamo le basi imponibili, come invita a fare Draghi; poi però definiamo con serietà i termini della sua progressiva riduzione. Per questo occorre avere più sviluppo, frutto sicuramente di uno sforzo che esalti la convergenza operosa delle migliori energie del Paese. Uno sforzo che porti alla ribalta una classe dirigente solida, consapevole delle sue responsabilità, credibile all’interno e all’esterno, così da rilanciare il volto dell’Italia in Europa e nel mondo.

Ecco la ciliegina finale. Visto che abbiamo parlato di New Deal e di intervento pubblico, ormai sembra normale ragionare sulla estensione dei compiti della Cassa Depositi e Prestiti, come se dovesse assolvere alle funzioni dell’Iri (quando l’Iri era una cosa seria). Non è un po’ azzardato? Fino a che punto si può dilatare il ruolo di un istituto finanziario impegnato a mobilitare, entro i limiti fissati da norme che rimontano alle prescrizioni della Carta costituzionale, il risparmio degli italiani?

In effetti, la Cassa Depositi e Prestiti fa già troppo. È sbagliato pretendere che faccia di più, dando ad essa il profilo di una “nuova Iri”. Forse dovremmo elaborare un pensiero nuovo che inventi le forme di uno sviluppo necessariamente nuovo. È tempo di ritornare alle intuizioni di Keynes – attenersi al discorso sul deficit spending nello stato di emergenza appare francamente riduttivo – laddove con esse si profilava la essenzialità di istituti mondiali per armonizzare le politiche monetarie. Il Piano Marshall aveva alle spalle gli accordi di Bretton Woods. Adesso siamo arrivati a destrutturare le regole del commercio internazionale, persino rimettendo in auge il protezionismo. Combattere la globalizzazione selvaggia non può significare che ci rifugiamo nella logica degli egoismi nazionali, illudendoci di vincere in questo modo il declino. Per questo dico che se viene a mancare la “spalla atlantica” non può mancare, di tutto contro, quella che potremmo definire la “spalla europea”. Vale per tutti, per l’Italia come per la Germania, perché siamo tutti sulla stessa barca.