Mi ha molto colpito una notizia di questi ultimi giorni: a causa delle limitazioni negli spostamenti dovuti al Coronavirus, 45 neonati sono bloccati in Ucraina.
Motivo? Sono frutto di “maternità surrogata”, ipocrita espressione che cela il più veritiero termine “utero in affitto”.

Succede che coppie (spesso omosessuali, ma non sempre) decidono di rivolgersi ad agenzie internazionali specializzate, le quali trovano una donna disposta ad “affittare” il proprio corpo per la “produzione” di un figlio.

Quel figlio non sarà poi suo, ma della coppia richiedente. Appena nato, sarà consegnato alla coppia “acquirente”. Come succede per qualsiasi altra merce disponibile sul mercato.
Le suddette agenzie internazionali dispongono di un menù: con condizioni legate ad un tariffario. Questa pratica è illegale in molti Paesi, compreso il nostro.Ma è facile accedere alle prestazioni dei pochi Paesi nei quali invece è consentita.
Pare che 11 dei 45 neonati bloccati in Ucraina siano stati “commissionati” da coppie italiane.

Nel turbinio di queste settimane di Coronavirus, forse sfugge la portata di questa “piccola” notiziola. Essa dovrebbe invece essere motivo di scandalo.
Come si può accettare che l’aspirazione ad avere un figlio diventi la pretesa di un “diritto assoluto”, da esigere senza se e senza ma, anche attraverso il noleggio a pagamento del corpo di una donna?

Le visioni antropologiche e morali cambiano nella storia e non possiamo basarci solo su convenzioni ormai in parte superate dai costumi sociali.
Ma tutto questo può avere dei limiti oppure no? Ogni aspirazione derivante dalla nuova antropologia è un “diritto assoluto esigibile”? Può fondarsi su questo assunto l’idea di un nuovo umanesimo capace di guidare le persone e le comunità oltre le secche di questa fase incerta e insidiosa di cambiamento? Può essere questo il nuovo paradigma dei diritti civili e individuali?

Decenni di giuste battaglie per il riconoscimento dei diritti delle donne possono portarci ad accettare e legittimare che donne di Paesi poveri e in condizioni di indigenza mettano a disposizione il proprio corpo per denaro allo scopo di far avere un figlio a coppie di Paesi ricchi ed in grado di pagare, con tanto di mediazione di agenzie specializzate e di tariffario?
A me pare inaudito.

Leggo che qualcuno propone di “regolamentare” questa situazione. Vale a dire: puoi affittare un utero per avere un figlio, basta che ottieni il timbro di qualche ufficio pubblico e dichiari di rispettare determinate procedure.
Ma quale regolamentazione potrebbe mai sanare l’insanabile conflitto tra questi comportamenti e la basi stesse dell’evoluzione umana, fondate sul principio che “mater semper certa est”?
Questo principio è mediato – con tutte le delicatezze e le difficoltà, per comprovate ragioni di forza maggiore e nell’interesse preminente del bambino rimasto privo di famiglia – nella pratica delle adozioni.

Ma come si può pensare di disciplinare una sorta di adozione pianificata sulla base di una transazione commerciale pattuita a priori?
L’unica cosa ragionevole che si può e si deve fare è rendere effettivo ed universale il divieto dell’utero in affitto. Come misura di civiltà: per rispetto delle donne e dei bambini. Le prime non sono “fattrici in vendita” e i secondi non sono “prodotto da commissionare”.
Purtroppo – nonostante molte richieste non solo politiche ma anche di associazioni sociali, tra le quali alcune di matrice femminista – la Legge Cirinnà non ha chiarito un punto essenziale: il divieto della pratica dell’utero in affitto anche se attivata all’estero, nei Paesi che la consentono. Ciò provoca una circostanza paradossale: si può fare in Ucraina o in qualche Stato americano ciò che in Italia è vietato e poi, tornati in patria, richiedere il riconoscimento del figlio “comperato”.

Un segnale terribile di sfruttamento delle donne in condizioni di necessità economica e di prevaricazione delle pretese individualistiche sui principi di umanità e di socialità