Lo scarpone ritrovato di mio fratello Günther mi restituisce la verità. Conversazione con Reinhold Messner.

 

Nostra intervista in esclusiva al più grande scalatore di sempre. “Non sono le montagne – questo il suo messaggio – che si adattano a noi, siamo noi che dobbiamo compararci con prudenza con le montagne”.

 

Francesco Provinciali

 

Buongiorno Sig. Messner, sono lieto di ritrovarLa per una seconda intervista, parlare con Lei è sempre un piacere ma anche fonte di apprendimenti di vita. Come tutti mi sono emozionato alla notizia del ritrovamento dello scarpone di suo fratello Günther, deceduto in montagna il 29 giugno del 1970 dopo aver raggiunto la vetta del Nanga Parbat percorrendo una nuova via lungo il versante Rupal, mentre stavate scendendo insieme dal versante Diamir. Sono trascorsi 52 anni durante i quali in molti hanno dubitato del suo racconto, su come andarono i fatti. Personalmente sono rimasto stupito dalla cattiveria umana che spesso non ha limiti. Qualcuno era arrivato a sostenere che Lei avesse abbandonato suo fratello per assumere su di sé il trionfo di quell’impresa. È incredibile come le peggiori e più maligne illazioni abbiano potuto trovare credito in questi anni. L’animo umano può raggiungere vette eccelse ma anche sprofondare nelle miserie più indegne.

 

Queste accuse maligne sono state inventate e non finiscono certamente qui: si tratta di versione tutte fantasiose per screditare la mia persona, non ne capisco il motivo. Già nel 2005 c’erano stati dei ritrovamenti, erano stati rinvenuti dei reperti del corpo di mio fratello e la prima scarpa che dimostrava al 100%  che si era trattato di una disgrazia accidentale accaduta in quel punto, come può accadere in alta quota a quelle altitudini. Era successo che il ghiacciaio – che è fluido e scorre verso il fondo valle – aveva portato lentamente in basso Günther per  3 o 5 km. Inizialmente lo scarpone non era stato trovato, forse era nascosto sotto un sasso, non si sa, perché a quelle altezze il ghiaccio è coperto da pietre, da ghiaia, da tutto quello che lentamente si era accumulato dentro il ghiacciaio nel corso di migliaia di anni e anche il corpo era stato portato a valle. Lo scarpone trovato adesso è stato recuperato più in basso rispetto a dove era stato trovato il primo e ora non c’è davvero alcuna possibilità che sia la scarpa di un altro.

Qualcuno tuttavia si è già fatto vivo per affermare che si tratta della scarpa di un altro: ma si vede benissimo in foto che è uguale a quella recuperata nel 2055. Attualmente non è ancora nelle mie mani, si trova in Pakistan. Andrò a prenderla ma non sono più disposto ad arrabbiarmi ancora per queste illazioni, ora il ritrovamento mi ha restituito la verità dei fatti. Tuttavia penso che ci sia molta cattiveria e anche queste teorie sono imputabili a qualche persona probabilmente malata di mente.

 

Ho letto di un medico bavarese (deceduto nel 1991) un certo Karl Maria Herrligkofferche è stato per anni uno dei suoi principali accusatori, avendo teorizzato che lei avesse abbandonato suo fratello…

 

Questo medico era il capo spedizione, lui non era un alpinista. Avevano abbandonato la spedizione tornando a casa a da lì lui aveva accusato me di aver abbandonato e poi lasciato mio fratello dall’altra parte della montagna, una cosa del tutto impossibile. Chi raggiunge la cima del Nanga Parbat dopo aver salito la parete più alta del mondo – e sottolineo che si tratta veramente di una parete –  non vede l’ora di tornare a valle per condividere con orgoglio questo successo, per meritare la fama dell’impresa. Non rischia il successo con una cosa di questo genere che getta ombre e discredito sul risultato raggiunto.

 

 

Mi ha colpito, ripeto, la fantasiosa e pervicace cattiveria, forse l’invidia della gente: come si fa a pensare che uno lascia morire lungo la discesa il proprio fratello, di due anni più giovane, per essere l’unico trionfatore? Trovo che sia una congettura pazzesca, neanche da dire…

 

Anche Bonatti aveva vissuto una situazione simile negli anni ‘30, era stato aggredito gravemente dai compagni. Sono storie che si ripetono.

Gli alpinisti sono persone del tutto normali: c’è chi è più bravo e chi lo è di meno.

Ma dobbiamo sfatare la diceria che gli alpinisti siano esseri diversi dal genere umano, eticamente diversi sotto il profilo dei valori di cui sono portatori.

 

 

 

Io sono sempre rimasto colpito dai suoi richiami etici. Lei mi disse nella precedente intervista una frase che non posso dimenticare: “le dimensioni umane nascoste sono più importanti di quelle trionfalistiche”.

Ecco che credo allora che quanto emerso a distanza di 52 anni le restituisca la soddisfazione di aver sempre detto il vero: è una cosa paragonabile forse alla gioia di raggiungere la vetta, di scalare la montagna più alta del mondo, di averla discesa insieme a suo fratello, sangue del suo sangue, con l’intenzione di tornare insieme. Non si può raccontare la storia di Caino e Abele, per questo dico che la cattiveria è sempre perfida e gratuita, considerato che le menzogne che hanno raccontato su questa vicenda l’hanno fatta soffrire a lungo….

 

Parlare di me e di Günther come fratelli è la cosa più importante. Quando avevamo trovato i resti di mio fratello c’era tutta la famiglia, ad eccezione dei nostri genitori che erano già morti. Tutti i miei parenti erano venuti con me sotto al Nanga Parbat eravamo più di venti, e insieme abbiamo trovato il posto dove era accaduta la tragedia. I miei fratelli e le mie sorelle – che avevano sofferto con me di queste accuse – avevano potuto portare il saluto al fratello Günther e si erano capacitati della verità. Mi spiace che non ci fossero i nostri genitori.

 

Fino al 1986 Lei ha scalato tutte le 14 vette sopra gli ottomila metri, quindi è depositario di un’esperienza unica.

 

Altri sono venuti dopo di me. Ma l’alpinismo oggi è diventato una forma di turismo, tutto è preparato. Mentre noi andavamo nell’incognita totale. Ho imparato che – come ha detto lei di me – bisogna cercare di essere sereni, vivere la propria vita senza far del male a nessuno, usare sempre il rispetto nei confronti degli altri e della natura. Ho imparato a stare zitti: oggi internet sta rovinando la nostra vita.

I social sono terribili.

 

Certo, specie per i giovani oggi l’uso disinvolto delle tecnologie crea dei problemi di non ritorno all’idea di normalità. Mi consenta un’ultima domanda: quale rapporto dobbiamo avere con la montagna? Lei ha ripetuto le sue lezioni e raccomandazioni molte volte. Quale consiglio vuole dare a chi questa estate va in vacanza in montagna? Ci sono già stati molti incidenti mortali e siamo solo all’inizio della stagione.

 

Ce se saranno anche questa estate, purtroppo. Oggi molta gente sale e scende le montagne, ma non vuole accettare l’idea che la montagna sia di per sé pericolosa.

Bisogna muoversi con lentezza e rispettare il contesto. Non sono le montagne che si adattano a noi, siamo noi che dobbiamo compararci con prudenza con le montagne.

E’ necessario avvicinarsi con grande rispetto e a piccoli passi, chi va con passi lunghi e veloce come in città o nei contesti di vita abituali, sbaglia, non va lontano.

Montagna significa silenzio, riduzione della velocità, riduzione dell’aggressività.

Andare in montagna significa cercare l’equilibrio tra se stessi e la natura.