La proposta di Franceschini, esplicitata oggi nell’intervista a ‘Repubblica’, riporta al centro la questione delle alleanze. Indubbiamente è un invito coraggioso a prendere il largo, pena l’immiserimento dell’esperienza incardinata sul Conte bis. In generale conta il programma, ma non meno importante è il quadro delle forze impegnate a realizzarlo. Alla lunga una varietà di condotta, disgiunta da un qualche vincolo politico, degenera nel trasformismo. Ciò finisce, quanto prima s’immagini, per debilitare la democrazia. Il rischio esiste, tanto da suscitare  allarme negli osservatori più inquieti e dubbiosi in ordine alla ‘rivoluzione parlamentare’ consumatasi nelle ultime settimane.

Ora, estendere l’intesa di governo agli enti locali vuol dire superare la logica che ha dominato la lunga stagione del bipolarismo tra centrosinistra e centrodestra, sempre con l’ossessione (giustificata) del berlusconismo. Sembra perciò che dalla politologia si passi alla sostanza della politica: urge evidentemente creare le basi di una nuova ‘struttura’ della vita democratica italiana. Si tratta di una scommessa obbligata e, secondo una regola non scritta, la sperimentazione prende forma a livello di comunità locali. Non è detto, però, che si debba tradurre nei termini angusti di un accordo di potere, sebbene abbia in sé una certa fascinazione che attrae le pericolanti classi dirigenti locali.

Il bipolarismo della seconda repubblica aveva dalla sua il puntello del sistema elettorale maggioritario. Che fare adesso? Che lo stesso sistema possa sorreggere una fase di transizione, dentro cui s’inscrive la possibile collaborazione nei comuni e nelle regioni dei due partiti di governo, è un’ipotesi poco persuasiva. Ciò nondimeno Prodi e Veltroni restano convinti che senza il maggioritario l’Italia cada nel baratro della ingovernabilità. Di fatto, questa sorta di pregiudiziale dei ‘vecchi’ leader dell’Ulivo si scontra con la tesi del Ministro dei Beni Culturali. Far finta che le opzioni siano equivalenti corrisponde a un esercizio di banale funambolismo.

Con il maggioritario si punta a ripristinare la dialettica dei tradizionali ‘poli’ di destra e di sinistra, assottigliando al minimino la funzione ancillare dell’area di centro; invece con il proporzionale si apre una competizione, anche se non dichiarata, tra chi riesca prima e meglio a occupare lo spazio politico in cui si riconosce tendenzialmente l’elettorato di centro, oggi in gran parte astensionista. In questa ottica, il ritorno al proporzionale muta anche la dinamica delle relazioni interne al Pd, poiché Franceschini ha bisogno di Renzi e questi, a sua volta, di Franceschini (ed entrambi di un ritrovato ascendente del popolarismo). In effetti, la ridefinizione delle alleanze per i governi locali indica uno scenario che ingloba la necessità di un ampio rimescolamento di carte in seno al Pd, ma soprattutto una profonda revisione della natura e della funzione di questo partito, originariamente pensato alla stregua di un’inedita ‘piattaforma unitaria’ delle culture riformiste nazionali.

D’altronde, se un modello dovrà valere per la collaborazione con il M5S, non solo a livello di governo centrale, esso non potrà che consistere nella formula del reciproco e leale riconoscimento, rinunciando alla logica della mescolanza evocata da Grillo. Resta sullo sfondo l’esigenza di coinvolgere a un agglomerato ancora informe, destinato tuttavia ad emergere dal magma liberal-popolare della società, fungendo da motore propulsivo di un sano riformismo democratico. Altrimenti, ignorata questa esigenza, non avrebbe senso riflettere sulla lontana crisi dei governo Bonomi e Facta, da cui negli anni ‘20 del secolo scorso venne fuori, come ricorda appunto Franceschini, la soluzione autoritaria del fascismo. Solo la ragionevole concordia di più protagonisti – all’epoca socialisti, popolari e liberali – avrebbe potuto evitare la sciagura. In qualche modo la storia piega ai nostri giorni piega nella medesima direzione, imponendo la convergenza delle forze genuinamente democratiche e riformatrici. Con la loro identità.