Non so se finirò i miei giorni in una comunità Amish, uno di quei sodalizi umani dove tutte le usanze, i marchingegni e le diavolerie del post-moderno vengono messe al bando, dove i tempi e i modi di vita sono improntati al rispetto delle più rigorose e persino ataviche tradizioni.

Sarebbe una scelta esagerata, lo ammetto, quasi una negazione di tutto ciò di comodo che la civiltà globale ci sa dare.

Alzi però la mano chi può dirsi soddisfatto e felice – ma cosa dico – “sereno” per le consuetudini di questa nostra complicata esistenza.

E poi non è detto che le nostalgie del passato ci concedano solo inconcludenti emozioni: non viviamo forse un’epoca di ripensamenti e di riscoperte di tutto quello che abbiamo troppo frettolosamente lasciato?

Trovo nei comportamenti prevalenti del nostro tempo il segno di alcuni cambiamenti: il più rapido accesso alle informazioni, la più acuta percezione dei diritti e il più intenso controllo sociale.

Mi chiedo anche se queste “conquiste” riescono ad essere metabolizzate nei nostri stili di vita in modo del tutto indolore ed esclusivamente positivo o se invece – a volte – non ci rendono più insicuri e più inquieti.

Difficilmente ci accontentiamo di un risultato, spesso viviamo con ansia le prove grandi e piccole della nostra esperienza umana, sovente protesi in una dimensione di superamento, di competizione e di ricerca.

Ci viene chiesto di essere più produttivi, concreti, pratici, di concludere, di realizzare: quasi come forzati della vita.

I miti della modernità sono quelli dell’efficienza e dell’efficacia: tutto oliato, funzionante, incanalato, organizzato, perfetto.

Guai a mostrare segni di debolezza e di rallentamento, si può finire con l’essere emarginati.

Eccoci allora impegnati in un sistematico lavorìo di emendamento sulla nostra vita, che ci corregge   e genera sensi di colpa: servono sempre toppe e rammendi, urgono revisioni e ripensamenti.

Ma spesso la pezza è più visibile dello strappo, il rimedio peggiore del male. 

Rattoppiamo tutto: l’economia che non decolla e produce nuove povertà, le istituzioni che vacillano e rinnovano antichi mali, gli affetti labili, consumati e stanchi, la quotidianità che si trascina e si ripropone senza risolvere i problemi di fondo, persino l’anima, cioè i nostri sentimenti, tra attenuanti e giustificazioni per la fatica di vivere. 

Quali nuovi slanci ci permetteranno di aprire le ali per spiccare il volo?

Non vedo in giro segnali confortanti.

Questa è l’epoca delle contraddizioni, dove anche le speranze si bruciano prima del decollo.

Cosa vuole da noi il mondo? 

Rimediare, ricucire, rammendare: ritornare sui nostri passi per raddrizzare errori, comportamenti sbagliati, superare ostacoli, gareggiare nelle contese importanti e in quelle tutto sommato inutili.

Assomigliare agli altri, ai tanti modelli di ostentazione e di successo che circolano nei programmi glamour, nelle storie dei rampanti e sulle copertine patinate delle riviste alla moda.

Oppure accettare i nostri limiti, essere sé stessi, archiviare gli errori e utilizzarli per migliorare, senza drammi, senza metter toppe alle debolezze della nostra variegata e poliedrica umanità.

Accontentarsi, ridersi addosso, rovesciare la medaglia per cercare il lato positivo delle cose, andare oltre.

Cogliere l’attimo fuggente e apprezzare ogni momento l’irripetibile dono della vita.