Lo stretto di Hormuz e le sanzioni USA all’Iran

Davanti alle provocazioni iraniane di inizio estate 2019, gli USA hanno opzioni diverse dalla guerra, tra cui sanzioni e incursioni cyber.

Nel 2018, alla decisione di Trump di ripristinare le sanzioni verso l’Iran, la UE non aderisce, e ciò complica il progetto di Washington di isolare l’Iran. In nome dei commerci, o anche soltanto in nome di rancide ideologie terzomondiste (rancide anche nelle pieghe antisemite), i burocrati e i governi che dettano legge a Bruxelles, cioè quello tedesco e quello francese, non accettano le richieste che arrivano dal governo Trump: perseguire ed espellere gli agenti iraniani in Europa; chiudere, se necessario, le ambasciate; sanzionare le società coinvolte in attività di terrorismo. Nemmeno un attentato maggiore in Danimarca, da alcune voci collegato a fondi iraniani e sventato all’ultimo momento nel settembre 2018, convince a un giro di vite. Il governo tedesco e quello francese pensano di poter aspettare l’uscita di scena di Trump nel 2020, che essi auspicano. Quando nel novembre 2018 Trump reintroduce le sanzioni, gli stipendiatissimi passacarte di Bruxelles annunciano un antipatico tentativo di stabilire un canale di pagamento in euro, che escluda il sistema del dollaro, per mantenere i legami economici con l’Iran. Persino con qualche accanimento, funzionari di Bruxelles studiano un sistema di baratto che consenta all’Iran di vendere petrolio o gas in Cina, e averne in cambio merci tecnologiche europee prodotte in Cina. La mentalità o l’ideologia che stanno dietro a queste azioni sono le stesse del governo Obama, il cui segretario al Tesoro, Lew, nel luglio 2015 assicurò in Congresso che all’Iran “negheremo l’accesso al mercato finanziario USA”, mentre invece faceva pressioni sulle banche americane affinché lavorassero con l’Iran. Affermando che l’accordo sul nucleare faceva dell’Iran un accettabile interlocutore per gli affari, Obama diede istruzioni a Kerry e altri ministri affinché incoraggiassero le istituzioni finanziarie a lavorare con l’Iran, e a questo scopo inviò delegati in molti paesi del mondo. Un analogo appeasement è la scelta dei potentati europei. Nel febbraio 2019, quando alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco il vice presidente americano Mike Pence chiede ai governi europei di unirsi agli USA nel denunciare l’accordo del 2015, la risposta è evasiva, mentre il governo tedesco e quello francese confermano (con il costituire società che diano attuazione al canale di pagamento in euro) i legami economici e diplomatici con l’Iran.

 

Ma intanto le sanzioni americane spingono importanti società europee a uscire dal mercato iraniano, nel timore di perdere l’accesso all’economia USA e ai suoi 22 trilioni di dollari di PIL. A inizio 2019 le sanzioni cominciano a farsi sentire, e l’economia iraniana incespica. L’export di petrolio e gas è sceso, in un paese dove quell’export fornisce l’80% delle entrate. Le maggiori società europee lasciano il paese. Sul piano delle transazioni bancarie, però, le sanzioni unilaterali USA non sono sufficienti. Per anni, prima durante i negoziati, poi dopo l’accordo del 2015, i legami commerciali con la Cina hanno portato investimenti in Iran, mentre quelli con la Russia hanno significato la costruzione di una seconda centrale nucleare e massicci acquisti di armamenti avanzati. Servendosi del fatto che l’accordo non riguardava tali acquisti, l’Iran ha sviluppato missili balistici e comprato da russi e cinesi missili terra-aria e terra-mare, oltre che imbarcazioni veloci fornite di siluri ad alto potenziale. Gli anni dell’accordo, dopo il 2014, hanno coinciso con la guerra in Siria, di cui l’Iran è stato il principale istigatore, e con lo spostamento di armi e truppe iraniane verso il Libano. Nei primi due anni di presidenza Trump le piccole aggressioni da parte di motovedette iraniane verso le unità della flotta USA nel Golfo Persico sono diminuite fino all’irrilevanza. Poi, quando l’economia iraniana è peggiorata, a inizio estate 2019 si è giunti alle provocazioni iraniane in prossimità dello Stretto di Hormuz.

 

Prima e dopo la crisi di inizio estate 2019, rinnovate sanzioni verso l’Iran, insieme a una deterrenza armata, sono la strada per indebolire il regime e arrivare a un negoziato credibile. Il governo Trump ha cancellato la nozione (obamiana) che il tema del nucleare può essere separato dalle altre iniziative del regime: un eventuale accordo deve riguardare l’arma nucleare, ma anche il programma missilistico iraniano e il sostegno a gruppi terroristi. La mancanza di consenso alle nuove sanzioni da parte dei maggiori governi europei, e l’evidenza che Cina e Russia proseguono i loro commerci con l’Iran, sono ostacoli maggiori. In ogni caso, qualunque ne sia l’esito, la decisione di Trump di revocare l’accordo concluso da Obama è moralmente apprezzabile e strategicamente coerente. Quanto al regime iraniano, la sua strategia è quella di tutti i nemici di Trump, cioè di aspettare una sua sconfitta nelle elezioni del 2020 e intanto operare perché ciò avvenga. A quest’ultimo obiettivo si adegua il tentativo di attirare gli USA in risposte militari limitate.

 

Da quando le difficoltà economiche alimentano l’opposizione interna, il regime iraniano sente il terreno franare sotto di sé. In questo contesto avvengono, nel maggio e giugno 2019, gli attacchi iraniani a petroliere, in prossimità dello stretto di Hormuz, con mine applicate sopra la linea di galleggiamento (in giugno un video registrato da un drone della Navy USA mostra un motoscafo iraniano che si affianca a una petroliera colpita per rimuovere una mina inesplosa). Nel punto più stretto, tra le due sponde di Hormuz ci sono meno di 15 km; da lì passano ancora il 20% del gas naturale e il 15% del petrolio esportati via mare; le destinazioni sono: Cina, India, Giappone, Taiwan, Indonesia, Europa; una navigazione libera e sicura viene considerata necessaria. Con gli attentati alle petroliere, il regime iraniano cerca attenzione e cerca soccorso, dai governi europei oltre che da Cina e Russia, per fermare le sanzioni USA in nome di un appeasement che eviti gli attentati alla navigazione. Con tale obiettivo, nella notte del 20 giugno quel regime, o qualche suo vertice militare, alza la posta in gioco: un missile terra-aria russo, lanciato da una base iraniana, abbatte un drone della Navy in missione di sorveglianza nei pressi di Hormuz. Non è un piccolo drone; è un grande velivolo, dal costo di 110 milioni di dollari. La previsione di tutti, in primo luogo del governo iraniano, è che gli USA rispondano con un limitato attacco su obiettivi iraniani. In America i media, i neo-con, persino i Democratici, invitano ad agire. La trappola per Trump è ben preparata: un attacco limitato condurrebbe a un’escalation senza infliggere danni sostanziali, mentre aprirebbe le porte a una valanga di accuse false a Trump e agli USA. Per il regime iraniano e per il suo zelo jihadista, essere oggetto di un attacco, soprattutto con perdite di truppe, sarebbe il risultato più gradito. Le perdite sono l’ultima cosa di cui quel regime si preoccupa, e un attacco USA, certamente travisato da comunicazioni distorsive, sarebbe per l’Iran un’occasione di rinnovato dialogo con Pechino e con Bruxelles.

 

Per gli USA, la perdita di un drone sofisticato (e vulnerabile) è molto spiacevole, ma è più un motivo per non mettere a rischio i propri velivoli, che non per accettare un conflitto limitato e gestito, presso l’opinione pubblica, da media avversi. Una guerra rimane tra le possibilità della storia: ma in quel caso dev’essere una guerra vera, con lo scopo di fare il massimo danno, e non il minimo danno, al nemico; dev’essere una guerra vera, non affidata a due o tremila uomini (truppe speciali, uomini di prima linea), come avviene da oltre 15 anni in modo esecrabile, immorale e strategicamente difettoso. Appare dunque corretta la decisione di Trump di non autorizzare l’attacco limitato che tutti attendono. Meno apprezzabile è il processo decisionale troppo trasparente: le notizie stampa sul raid annullato mezzora prima dell’inizio, l’intenzione dichiarata da Trump di voler evitare le perdite (150 truppe) previste tra gli iraniani, e altre chiacchiere mediatiche, non aiutano, non servono. Ciò che conta è la scelta di Trump di non cadere nella trappola di un’altra guerra che non è guerra. Niente può danneggiare Trump nelle elezioni del 2020 quanto un altro conflitto, condotto a metà e con mille freni, che i suoi elettori non vogliono. Gli iraniani, come i cinesi, come i governi europei, lo sanno. Per questo motivo essi vedrebbero con favore un’azione militare USA, che senza dubbio sarebbe di modesta entità, dalle parti di Hormuz.

 

Davanti alle provocazioni iraniane di inizio estate 2019, gli USA hanno opzioni diverse dalla guerra, tra cui sanzioni e incursioni cyber. Le sanzioni economiche annunciate da Trump il 24 giugno, che colpiscono le società petrolchimiche del paese e ne riducono l’export (che beneficiava di molte deroghe nelle sanzioni di fine 2018), sono più dannose per il regime della perdita di una batteria di missili russi, o di una stazione radar, o di 150 truppe. L’accordo sul nucleare del 2015 aveva liberato l’Iran dalle sanzioni e aveva garantito le sue attività aggressive. Un regime ispirato dal fondamentalismo islamico può compiere ben altro che abbattere un drone. Se il regime avesse la bomba nucleare, Israele sarebbe il primo bersaglio. Soltanto i +leader Democratici USA, o governi europei al servizio del globalismo, possono fingere di non vederlo. La strategia di Trump del giro di vite sul regime, aumentando la stretta delle sanzioni e assicurando i vicini arabi del sostegno USA in caso di aggressioni iraniane, può funzionare, in rapporto a un eventuale cambio di regime in Iran. Ovviamente, un attacco maggiore su obiettivi USA cambierebbe lo scenario.

 

Riguardo alla crisi di Hormuz dell’estate 2019, vi sono due cose da notare. La prima è che è giunto infine il momento di mettere in questione la garanzia di libera navigazione e di liberi commerci fornita esclusivamente, a Hormuz e nei mari vicini, dalle forze USA. Trump ne ha parlato in un tweet ma, come su altri temi, la politica USA non cambia per un tweet. A chi serve la sicurezza a Hormuz? A chi servono il petrolio e il gas che vi passano? Non agli USA, che non ne hanno bisogno, avendo raggiunto la piena indipendenza energetica ed anzi essendo divenuti un esportatore, tra i maggiori, di gas e petrolio. Nessuna delle petroliere attaccate a inizio estate 2019 aveva bandiera USA o relazione con gli USA. Petroliere e flussi sicuri servono alla Cina (il 60% dei flussi va in Cina), al Giappone, all’India, e così via. Poiché in politica estera il presidente ha qualche autonomia, e poiché nulla ci si può attendere da un Congresso che per metà è nella morsa di politiche distruttive per la nazione americana, si può auspicare un’iniziativa diplomatica (e comunicata al pubblico) affinché i paesi interessati ai traffici in uscita da Hormuz siano coinvolti nel garantire la sicurezza della navigazione in prossimità della costa iraniana: coinvolti almeno in termini finanziari e di sostegno politico. Che la Cina sia pronta a condannare una risposta USA alle aggressioni iraniane, mentre essa è il primo beneficiario della guardia armata condotta dalle forze USA in quei mari, è un’aberrazione. 

 

La seconda cosa da notare riguarda l’Europa. Nel momento più caldo della crisi nell’estate 2019 i vertici della UE, sulla stessa linea dei maggiori media americani, criticano la denuncia dell’accordo sul nucleare da parte di Trump (come se quella denuncia fosse la causa delle malefatte iraniane, che vanno avanti almeno dal 1983, quando vi fu l’attacco terroristico di Hezbollah alla caserma dei marines in Libano) e mettono in dubbio l’utilità delle sanzioni verso l’Iran. La posizione presa dai governi europei che impongono la linea a Bruxelles (Germania e Francia) era l’esatto scopo degli attacchi iraniani, che volevano dimostrare il pericolo derivante dalle sanzioni americane. L’esigenza che l’UE non si faccia condizionare dalle manovre o dalle truffe iraniane non ha bisogno di commenti. Qualche parola, però, vorrei dire riguardo al paese leader dell’UE, la Germania. Da qualche anno ascoltiamo critiche esplicite al governo Trump da parte di esponenti della politica e della finanza tedesche. Le ascoltiamo anche da un leader, la Merkel, un tempo prudente, poi divenuto obsoleto, legato al globalismo, e talvolta fuori dai cardini: cominciò a esserlo nel 2010, con il primo salvataggio finanziario della Grecia; si aggravò nel 2015, con l’apertura delle frontiere a un milione e mezzo di immigrati dal Medio Oriente in poco più di un anno, recando grave danno alla società e alla convivenza in Germania; divenne incontrollabile con le dichiarazioni ostili verso Trump, in un caso persino pronunciate in America, nell’università di Harvard (il che è come se Trump attaccasse la Merkel in un’assemblea del partito tedesco AFD). Ma per la Germania il problema va oltre la sua leader globalista e anti-Trump. La deriva antiamericana si confonde con una deriva pacifista e con un ambientalismo massimalista, applicato anche quando danneggia l’ambiente (come avviene in Germania per molti impianti solari, che stravolgono l’ambiente). Troppo tedeschi tendono a dimenticare che nei 40 anni seguiti al 1945 il loro paese era esposto a un’invasione da parte dell’esercito sovietico, se a difenderlo non vi fosse stato il deterrente delle forze USA di stanza in Germania: se i cieli tedeschi non fossero stati pattugliati dai Phantom americani e se le foreste tedesche non fossero state presidiate dagli Abrams americani. Troppi tedeschi tendono a dimenticarlo, tanto più quando un presidente americano, Trump, per la prima volta mette in questione la mancata osservanza, da parte della Germania, degli impegni per il finanziamento della NATO; o mette in questione le tariffe commerciali, sia pur modeste, che la Germania applica su alcuni prodotti USA e che hanno contribuito, insieme all’eccellenza di molti prodotti tedeschi, al vasto attivo commerciale della Germania; o quando quel presidente offende la sensibilità tedesca mostrando di non approvare le scelte globaliste del governo di Berlino o chiedendo (e qui sbagliando) di ridurre i legami con la Russia per l’acquisto di energia. La deriva antiamericana del governo Merkel ci infastidisce; in ogni caso, essa non può motivare il salvataggio di un Iran a cui la Germania ha venduto di tutto, dalle prese Siemens alle turbine per il nucleare. Il legame dell’alleanza occidentale con l’America, almeno nei confronti di regimi-canaglia, deve prevalere.