L’Unione Europea dopo la pandemia

Verso una governance economica e sociale più sostenibile.

Pubblichiamo per gentile concessione l’intervento del Presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, che appare sul numero 21 del Working Paper della Fondazione Ezio Tarantelli -Centro Studi Ricerca e Formazione» (Cisl).

Per l’Unione europea e per il mondo, la drammatica crisi provocata dalla pandemia è stata un vero e proprio spartiacque, un evento devastante quanto inatteso.

Tutto ciò ha determinato forti cambiamenti, non solo sul piano personale e collettivo ma, in generale, anche sulle dinamiche sociali, sui diversi modelli di produzione, sulle regole istituzionali, sulle funzioni politiche.

Sarà molto difficile, quindi, archiviare o semplicemente dimenticare questa esperienza perché questo virus è riuscito a mettere in evidenza le contraddizioni di un mondo globale senza regole che, specialmente negli ultimi vent’anni, non ha fatto altro che produrre vere e proprie fratture nel corpo sociale.

Interi settori delle nostre economie hanno dovuto chiudere o sono falliti; la pandemia ha colpito la parte più vulnerabile della società: gli anziani, le persone isolate, le donne, i giovani e i disabili. Ma soprattutto questa stagione ha messo a nudo le debolezze di una visione economica imperniata sul neoliberismo che ha determinato nuove disuguaglianze.

Di fronte a questa emergenza, l’Europa ha reagito con determinazione e fermezza. Le risorse messe in campo dalle istituzioni europee hanno rappresentato, infatti, una svolta senza precedenti. Oltre ad aver stanziato massicci trasferimenti di bilancio a favore degli Stati membri (finanziati da un prestito comune contratto dalla Commissione europea a nome dell’UE), l’Europa ha varato un piano di ripresa lungimirante, sostenibile dal punto di vista economico e sociale e soprattutto con uno sguardo rivolto alle prossime generazioni.

L’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che fissa traguardi ulteriori dopo gli Obiettivi del Millennio, ci ricorda che lo sviluppo sostenibile è oggi non solo condizione essenziale per il pianeta e l’umanità ma anche un dovere verso le generazioni future.

La sostenibilità rappresenta quindi la sintesi, l’orizzonte ma, al tempo stesso, anche il paradigma con cui dobbiamo declinare i temi dello sviluppo economico.

In questo senso tutti gli Stati membri hanno il dovere di svolgere un lavoro attento sulla programmazione e sulla pianificazione degli interventi previsti nei Piani Nazionali di Ripresa e di Resilienza, poiché siamo davanti ad una trasformazione ecologica e digitale che implicherà un cambiamento profondo degli stili di vita, dei consumi, della produzione, del mondo del lavoro e della vita quotidiana delle persone.

La pandemia, insomma, non è una parentesi, ma un forte invito a proiettarci nel futuro, a progettare insieme un’Europa più giusta che possa restituire centralità alla persona umana, investire sul valore della comunità e perseguire uno sviluppo integrale orientato al bene comune.

L’Europa può svolgere un ruolo da protagonista e indicare nuovi modelli che possano conciliare crescita economica e sostenibilità, perché le regole del mercato senza la difesa dei diritti umani, il senso della libertà e della democrazia, sarebbero soltanto delle leggi economiche che fanno prevalere il più forte e questo non possiamo accettarlo.

Non si tratta di recuperare ricette del passato, ma di affermare una funzione in difesa dei più deboli e di stabilire nuove alleanze con il mondo del lavoro e le imprese. Nessuno deve rimanere indietro: dobbiamo garantire la creazione di nuovi posti di lavoro e di nuove opportunità per tutti.

Per questo dobbiamo valorizzare ancora di più quell’idea di cittadinanza globale e di cittadinanza solidale che sta alla base di una società aperta ed inclusiva. Non è accettabile un’economia senza morale, uno sviluppo senza giustizia, una crescita a scapito delle generazioni future.

Si, perché il mondo prima della pandemia aveva scavato solchi profondi nel corpo sociale e prodotto notevoli diseguaglianze. Negli ultimi anni, la crescita non è stata per tutti. Ed è proprio il concetto di crescita che dobbiamo rivedere per parlare di sviluppo e lavoro.

I dati dell’Istat sulla povertà in Italia valgono per tutti i paesi dell’Unione. Decine di milioni di europei che erano sulla soglia della fascia di povertà sono al di sotto, e decine di milioni de europei che erano ceto medio basso sono adesso sulla soglia della fascia di povertà.

Abbiamo qualcosa da dire? Pensiamo che sia sufficiente dire loro che quando arriverà la crescita riprenderanno a vivere? Pensiamo che sia un problema delle associazioni di assistenza? I poveri non possono aspettare. E questi cittadini reclamano dignità. È un terreno molto insidioso per le forze politiche democratiche, perché se si girano dall’altra parte possono venire travolte, se non dalla rabbia di certo dall’indifferenza.

Se chiediamo a una persona in difficoltà di resistere due mesi con qualche sostegno, anche piccolo, probabilmente può farcela. Ma certamente non può essere quella la condizione per affrontare nel lungo periodo una battaglia per la sopravvivenza. Il richiamo del Parlamento europeo con la proposta di salario minimo è stato raccolto dalla Commissione europea.

Noi progressisti ci abbiamo fatto la campagna elettorale. E oggi quello è uno strumento ottenuto ed è sul tavolo. Spero che tutti i governi si accorgano della necessità di avere questo strumento per accompagnare il sostegno alle povertà con l’esigenza di uguaglianza.

In questo momento, poi, tutti i paesi europei stanno producendo altro debito. Lo lasceremo alle prossime generazioni?

Penso che, tenendo conto delle necessarie compatibilità da conciliare con il principio cardine della sostenibilità del debito, sia necessaria una riflessione senza pregiudizi per mitigare gli effetti di un indebitamento che rischia di compromettere il futuro.

Il debito contratto dai vari Paesi in questo periodo di crisi deve essere considerato, infatti, come l’unica scelta possibile per salvaguardare i livelli occupazionali, la continuità delle nostre imprese e, non ultima, anche la pace sociale. Da qui nasce la mia proposta di valutare la sterilizzazione dei debiti contratti dai governi in tempo di Covid.

Si è finalmente acceso un dibattito, sostenuto dalla politica ma anche da molti economisti. Credo che questo sarà un tema centrale del prossimo futuro e che dovrà’ trovare presto una risposta.

La politica dell’austerità in Europa ha fallito. Adesso dobbiamo rilanciare con forza le economie senza temere di rimanere strozzati da questo debito, che rischia di essere un fardello troppo pesante per molti paesi europei, mettendo in grave pericolo la ripresa.

Abbiamo certamente bisogno di visione a medio e lungo termine, ma dobbiamo anche calarci nel concreto delle difficoltà materiali delle persone perché vi è la necessità di provvedere da subito al sostentamento di milioni di europei. Lo sforzo è inedito e molto impegnativo. Richiede responsabilità e invenzioni, come quelle messe a disposizione dall’Unione in questo primo anno di pandemia.

È nell’interesse dei nostri cittadini rafforzarci insieme. Abbiamo davanti a noi un esercito di precari e questa situazione già fragile, si è aggravata ancora di più con l’arrivo del virus. Abbiamo una forza lavoro composta da persone con contratti a breve termine.  Dobbiamo dare loro un lavoro sicuro. È chiaro che gli anelli deboli delle nostre catene sociali fanno fatica a sostenere il peso della crisi.

Le donne ed i giovani, in particolare, sono vittime delle forti diseguaglianze prodotte nel decennio precedente. Se continuassero a rimanere esclusi, emarginati o sottopagati, la loro precarietà – oltre ad essere il segno di una profonda ingiustizia – potrebbe trasformarsi di una potente bomba sociale.

Adesso dobbiamo impegnarci tutti a dare basi solide al nuovo corso e, in questo senso, penso che sia necessario ripensare gli strumenti della governance economica europea.

Nonostante la Commissione europea abbia annunciato di voler estendere anche al 2022 la sospensione del Patto di Stabilità e Crescita, penso che sia necessario rivedere e riformare alcuni aspetti di questo accordo, alla luce dell’attuale contesto sociale ed economico che stiamo vivendo.

In altre parole, se in futuro questo strumento venisse reintrodotto così come lo conosciamo, potrebbe mettere in seria discussione la ripresa dei nostri Paesi e la capacità del Recovery Fund di avere gli effetti che tutti si augurano.

Nei prossimi mesi quindi dovremmo assumere decisioni di grandi rilievo perché, vista l’attuale situazione economica, ben 25 paesi membri rischiano di vedersi aprire una procedura per deficit eccessivo, un’eventualità che potrebbe essere un segnale negativo per la credibilità stessa delle nostre regole.

Tutto questo ci impegna a definire anche una nuova idea di Europa, come ci hanno chiesto milioni di cittadini quando, alle ultime elezioni europee, hanno dato fiducia ad un cambiamento possibile: un’Europa che ascolta, che si pone al servizio delle persone e che cerca convergenze sui grandi temi.

Un’Europa utile, che sappia guardare in profondità il nostro tempo, che non si accontenti di auto-conservarsi, disposta a mettersi in gioco, a ripensare al proprio funzionamento democratico. Servono grandi riforme e la drammatica lezione del Covid-19 ci dice che non è più tempo di aspettare perché domani sarà troppo tardi.