Una delle più belle definizioni di uomo ce la offre Emmanuel Mounier: “Il luogo dove l’essere si fa parola”.  La specificità umana connessa alla possibilità della comunicazione verbale è preclusa a qualsiasi altro essere vivente con peculiare riferimento al fatto che il linguaggio umano, diversamente dal modo di intendersi degli animali, è in continua evoluzione ed è dotato di insondabili ricchezze di creatività.

Un dono così grande esige la custodia più accorta, la vigilanza più ininterrotta. Di solito i grandi cambiamenti storici sono accompagnati, e spesso addirittura preceduti, da un cambiamento del linguaggio. Una buona educazione linguistica può essere il volano del cambiamento di una società. Al buon padrone del proprio linguaggio si possono attribuire le virtù che Machiavelli assegnava al principe: la forza e l’astuzia.

La forza, intesa come controllo pieno dei propri mezzi espressivi e capacità di porre argine alle degenerazioni, è fondamentale: chi sa disporre delle parole e ha la forza di sottometterle al filtro dell’intelligenza, è in grado di intavolare una conversazione che sappia dire la realtà nella sua complessa struttura senza cedere all’approssimazione.

Ma altrettanto importante è l’astuzia, che è diversa dalla furbizia: il furbo fa leva sulle debolezze dell’altro e “ruba” (“fur” in latino significa ladro), saccheggia senza costruire; l’astuto, invece, comprende anticipatamente non solo le conseguenze di quello che dice, ma anche le conseguenze delle conseguenze. Ciò che è detto, una volta detto, non torna più indietro e le parole sono pietre. Non è vero che siamo responsabili solo di quello che diciamo e non di quello che gli altri capiscono: se sappiamo usare il linguaggio con forza e astuzia, diventiamo capaci di vincolare il nostro dire a un’unica interpretazione, quella che noi intendiamo proporre all’intelocutore.

In tempi in cui il linguaggio è usato in maniera sempre più leggera e spesso si carica di un portato di odio tanto gratuito quanto inconsapevole, il cambiamento può iniziare dall’uso di un buon linguaggio. Bisogna, inoltre, considerare che la parola si ammanta di particolari connotazioni a seconda che sia pronunziata con un certo tono di voce piuttosto che con un altro, sorridendo oppure con espressione arcigna, con il volto di chi sa che la comunicazione finirà quando egli avrà finito di parlare o con l’occhio di chi dà l’impressione di essere desideroso di ascoltare la risposta per arrivare insieme alla verità perché la comunicazione è dialogica e il dialogo è reciprocamente maieutico.

Usare un linguaggio sempre negativo è indice di scarso spirito di osservazione. Per quanto tu sia stato deluso dalla vita, le cose positive saranno sempre di più di quelle negative. Camus, ne “La peste”, scriveva che “nell’uomo ci sono più cose da ammirare che non da disprezzare”. Se stai respirando, significa già che non sei morto ed è un valido motivo per ringraziare. Se conti, tra le tue conoscenze, le persone buone rispetto a quelle “cattive”, le prime saranno di più. La quantità di generosità ricevuta è sempre maggiore rispetto all’ingratitudine. “Non finirò mai di stupirmi della cattiveria della gente”: perché, invece, non ti stupisci della bontà, che è anche più difficile da vivere e le cose più difficili danno maggiore soddisfazione? Volgi il tuo occhio al bene invece che al male e allena una selettività della memoria.

Sul monte del Purgatorio, nel paradiso terrestre, Dante fa bagnare le anime purificate nelle acque del Letè, il fiume della dimenticanza del male, e nell’Eunoè, il fiume del ricordo del bene. Gli altri vanno aiutati in questa opera, a porsi di fronte alle cose in modo costruttivo: se torni dal lavoro stanco non è perché questo lavoro ti distrugge, bensì perché hai fatto tante cose belle e utili agli altri.

È assolutamente sconsigliabile considerare sempre gli altri l’origine delle frizioni nelle nostre relazioni. È significativo il caso di una classe scolastica: con l’insegnante X regna la confusione e il disordine, con l’insegnante Y la disciplina e la diligenza. Eppure i ragazzi sono gli stessi. Cosa cambia? Chi dà il tono spirituale al dialogo. Le relazioni, infatti, sono sempre asimmetriche: vi sarà uno che si trova a un grado di maturità spirituale più alto dell’altro.

La persona più matura, intelligente da capire la sua superiorità ma umile da accettare di metterla al servizio dell’altro, deve incaricarsi di strutturare la relazione perché sia significativa per la vita e non si riduca a scontro frontale.
Il linguaggio deve essere chiaro, sintetico, rispettoso della complessità delle cose e  mai involuto. Le parole devono essere ricercate perché solo nelle sfumature si riesce a essere precisi. Insegnare una nuova parola a qualcuno è un’opera di misericordio: lo si sta rendendo maggiormente padrone delle cose. Non bisogna abbassare il livello con chi è culturalmente meno dotato: bisogna alzarlo, dandogli la possibilità di seguire il discorso. Naturalmente tutto con senso della realtà e della misura.

Se tua nonna ha ottant’anni e non parla che in brianzolo, evita di comunicare con lei come un erudito accademico della Crusca: preferisci essere sapiente e rivolgiti a lei in dialetto. Ma se il tuo fratellino a quattro anni non sa cosa significhi bistecca, non abbassarti al suo livello chiamandola ciccia, ma insegnagli un’altra parola. Si rapporti l’esempio alle diverse occasioni di vita e si veda che non è così scontato come appare.
Se si può dire una cosa in tre parole, non se ne usino quattro. Se proprio si ha fiato da sprecare, lo si usi per atti di “bontà linguistica”, che possono mettere capo a una vera rivoluzione, la “rivoluzione della tenerezza” di cui parla il Papa.

Tenerezza è il contrario di arrendevolezza o dolcezza melensa: è una mano tesa all’altro perché sia abilitato a leggere la realtà è a dirla nella sua componente ontologicamente positiva. Il linguaggio, quando è corretto ed espressivo di un pensiero attrezzato al buono e al vero, è automaticamente seminatore di bontà; altrimenti diventa portatore di calunnie e incomprensioni.
Visto che non siamo perfetti, avverrà che una volta decideremo deliberatamente di offendere la nostra compagna. Però anche qui occorre misura: mai parole pesanti, che possono scoprire equilibri fragili che è meglio lasciare coperti, mai tirare in ballo i suoceri; al massimo le si può dire che il risotto che ha cucinato ieri sera (questa settimana tocca a lei cucinare) faceva schifo. In questo caso, il più intelligente o semplicemente quello che ha trascorso una giornata migliore, lasci all’altro la libertà di sfogarsi e, lungi dal dimostrarsi offeso, sia lui stesso a ristabilire la comunicazione rimodulando appena possibile il linguaggio a una dolcezza maggiore anche dell’usuale.

È la missione che fu di Giovanni Battista: ricondurre “aspera per vias planas”, rendere scorrevoli i sentieri tortuosi, appianare i declivi, rischiarare, addolcire.
Ma tutto questo ha bisogno di allenamento: ringraziare per cose dovute, far presente all’altro che si è contenti di vederlo anche se l’incontro era scontato, salutare il portiere sorridendo o ringraziare il controllore per averci vidimato il biglietto sul tram, sono l’inizio di una piccola rivoluzione. Si finirà per capire che non è vero che i buoni sono sempre i grandi fregati, che a essere gentili ci si rimette sempre, che chi fa del bene finisce male. La tenerezza è contagiosa: gli altri vorranno imitarci e la relazione salirà di livello.
La performatività della parola buona renderà pazienti costruttori di una casa in cui quando si parla ci si capisce, ci si ascolta, ci si ama. E il mondo non è che una grande casa fatta di tanti piccoli rivoluzionari che hanno capito che l’uomo non vive di solo pane, ma anche di parola (oltre che di Parola).