Che Matteo Renzi abbia quasi liquidato il Pd con la sua gestione personale e spregiudicata non  c’è alcun dubbio. L’aver trasformato un partito plurale in un partito sostanzialmente personale –  l’ormai famoso Pdr, anche se, è sempre bene non dimenticarlo mai, erano renziani tifosi ed incalliti  quasi il 70% del partito – è stato un elemento che ha fiaccato le potenzialità di quel partito. E  infatti Renzi si è congedato da quel partito dopo averlo riportato al 18%, isolato radicalmente  sotto il profilo politico e, quel che più conta, sempre più lontano dai cittadini e da settori crescenti  della pubblica opinione perchè rifletteva l’indole e il carattere del suo segretario. 

Ora, al di là di quella stagione – anche se la “corrente renziana” nel Pd continua ad essere forte e  forse sarà determinante per il ritorno, da capo, del loro beniamino – adesso, però, si tratta di  capire che cos’è diventato quel partito. Al di là dei cambiamenti continui della linea politica  dettata dall’ideologo Bettini al segretario – almeno così pare per chi si informa quotidianamente  dagli organi di informazione – in quest’ultimo anno, quello che più colpisce è la continua lotta tra  le varie tribù o correnti o gruppi interni che si contendono il potere. Una lotta, appunto, senza  esclusione di colpi dove però non è ben chiara quale sia la diversità politica all’interno di questa  maionese sempre più impazzita. Se Zingaretti a settimane alterne parla di “ripartenza” o di  “rigenerazione” – termini che ormai hanno la stessa efficacia dell’acqua che scorre sulla pietra – il  corpo concreto del partito è impegnato in una lotta spietata al suo interno su chi deve, di volta in  volta, esercitare la leadership. Una contrapposizione frontale che si estende dal centro alla  periferia senza eccezione alcuna.  

Ma, senza indugiare ulteriormente su ciò che capita realmente nelle sempre più innumerevoli  correnti e sottocorrenti che campeggiano nel partito, quello che semmai è urgente capire –  possibilmente senza mutare strategia e linea politica ogni mese – è la prospettiva politica concreta  che persegue il Partito democratico. Alleanza secca e strategica con il partito di Grillo e con i post  comunisti di Leu? Alleanze anche con forze centriste, moderate e liberali che si stanno  organizzando in vista dei prossimi appuntamenti elettorali? Ripresa della mai smentita “vocazione  maggioritaria del partito? O cambiamento delle alleanze a seconda delle convenienze del  momento e delle opportunità di potere che si presentano all’orizzonte come è capitato dal 2019 in  poi?  

Sono domande legittime, credo, a cui è necessario dare risposte politiche altrettanto chiare e  trasparenti. Non vorrei che adesso, con la scusa del dibattito congressuale – che sarà sempre più  lungo, tortuoso e complesso causa la pandemia – tutto viene sospeso in nome delle assise che  saranno celebrate chissà quando. Quello che si definisce il perno dell’alternativa al sovranismo  non può continuare ad essere un luogo dove prevalgono solo risse, scontri e l’eterno e ormai  strutturale duello tra le infinite correnti. E questo per il bene del riformismo di governo e non solo  per la sopravvivenza del Pd, come ovvio.