Ma Putin, oggi, non vuole finire la guerra.

Appare ogni giorno più chiaro che Putin ha deciso di estendere il conflitto al campo economico. È convinto infatti che le libere società occidentali o occidentalizzate non hanno valori intrinseci alle popolazioni in grado di sopportare per lungo tempo le reali e significative diminuzioni del livello del tenore di vita derivanti dal prolungamento della guerra. Dunque, Non si vedono sbocchi a breve.

Il viaggio in treno sino a Kiev dei capi di governo dei tre principali Paesi della UE ha con facilità assunto un forte valore simbolico. La foto con Macron, Scholz e Draghi in tenuta informale nel vagone ferroviario ha invaso le redazioni giornalistiche e i siti web. Qualcuno si è spinto a dire che si è scritta una pagina di storia.

La realtà, però, è assai meno entusiasmante. Lo scenario generale rimane alquanto cupo. La missione – alla quale nell’incontro con Zelensky è stato aggregato il premier della Romania, paese confinante con l’Ucraina – sostanzialmente aveva un triplice intendimento: dire agli ucraini che la loro richiesta di adesione alla UE sarà evasa nei tempi più rapidi possibili (che però non sono affatto immediati) purché essi si acconcino ad avviare una trattativa di pace realistica con i russi. E inviare a questi ultimi un avvertimento chiaro: l’Ucraina diverrà parte dell’Unione Europea, ragion per cui combatterla significherà combattere l’Europa, con tutte le conseguenze del caso.

Tenendo fuori la NATO e gli americani con questa iniziativa gli europei hanno assunto una iniziativa politica autorevole, ed è interesse e speranza di tutti che essa produca i risultati che si è ripromessa. Ma sarà così? Lecito dubitarne, almeno nel breve periodo. L’irridente provocazione dell’ex presidente Medvedev e la secca dichiarazione del ministro Lavrov testimoniano plasticamente l’irritazione russa e al tempo stesso la poca o nulla disponibilità a trattare con gli europei. Fin dall’inizio della crisi personalmente sostengo che la trattativa – quando ci sarà – Putin vorrà farla con gli americani. Da potenza a potenza. Ma anche la richiesta di Zelensky non offre, nell’immediato, motivi di grande speranza: noi vi ringraziamo, confidiamo di entrare nell’Unione in tempi ragionevoli, ma il nostro hic et nunc ha un nome solo: armi. Dateci armamenti moderni in grado di contrastare i russi.

Armamenti che non sono però già tutti nelle disponibilità reali dei paesi europei, nel senso che molti di essi dovrebbero essere fisicamente prodotti, con un investimento massivo di risorse economiche di fatto da economia di guerra. Una decisione che i Parlamenti dei Ventisette è dubbio voterebbero senza accese discussioni e forti opposizioni.

Già, l’economia. Alle prese con il post-pandemia ora i bilanci statali devono affrontare anche le conseguenze della crisi energetica indotta dal progressivo razionamento di gas e petrolio provenienti dalla Russia. Poiché appare ogni giorno più chiaro che Putin ha deciso di estendere il conflitto al campo economico. Convinto che le libere società occidentali o occidentalizzate non hanno valori intrinseci alle popolazioni in grado di sopportare per lungo tempo le reali e significative diminuzioni del livello del tenore di vita che deriveranno dalla crisi produttiva e poi commerciale, e quindi economica, che lui imporrà tagliando sino a revocare del tutto la vendita del suo principale asset strategico. Una capacità di resilienza che invece i russi hanno da sempre. Al di là di chi li governa (comunque, invariabilmente, dittature).

Se Putin, come tutto lascia intendere, ha optato per una lunga guerra di logoramento con l’obiettivo dapprima di conquistare città dopo città il Donbass e poi di progredire lungo le sponde del Mar Nero verso ovest per chiudere agli ucraini ogni via di accesso ai porti ivi presenti, le risposte occidentali non potranno che essere due, opposte. O armare Kiev molto più di quanto fatto sinora e dunque rischiare un incancrenimento della guerra che inevitabilmente colpirà pesantemente le loro economie. Ed è quanto chiede Zelensky. O al contrario non farlo e di fatto accettare che la Russia avanzi lungo il fronte, senza avere fra l’altro la certezza che il fronte medesimo ad un certo punto non torni ad investire anche il nord dell’Ucraina e la sua stessa capitale. Ed è quanto teme Zelensky.

Poi c’è la questione del grano. Un’altra arma che, ormai è evidente, Putin ha deciso di giocare con spregiudicatezza. Ben sapendo che i problemi che il suo mancato smistamento dai silos e dai campi ucraini alle imprese alimentari africane determinerà – oltre alla fame per milioni di persone, ma questo a lui importa poco o niente – pressioni sociali sui governi africani che genereranno instabilità, e quindi disordini, e quindi migrazioni, che si scaricheranno su un’Europa che ha più volte dimostrato di sopportare a fatica e solo con numeri limitati. È il caos in occidente e segnatamente in Europa che vuole Putin. Probabilmente immaginando di poter vendere le proprie risorse energetiche altrove e confidando di poter allargare, complice appunto il caos, la propria influenza nel continente africano.

Non si vedono sbocchi a breve, dunque. Un altro anno nero per l’umanità. È dunque realistico riconoscere che a questo punto occorra lavorare per imbastire un tavolo di pace. Prima che la guerra allarghi ulteriormente il fronte. Con un retrogusto amaro, perché è evidente che la Russia vi si siederà da una posizione di forza (per quanto riguarda le conquiste territoriali) e che pertanto la violenza e l’usurpazione avranno ottenuto il loro obiettivo minimo. Ma Zelensky è in grado di trattare un’amputazione territoriale dopo tanti lutti e tante distruzioni? Quanto il nazionalismo ucraino – ovviamente alimentato in tutte queste settimane tragiche – gli consentirà di trattare? Sarà sufficiente un preciso impegno europeo alla ricostruzione del Paese, privo del Donbass e della Crimea? E infine, sono disponibili a trattare gli americani? Perché, ripeto, è con loro che Putin vuole trattare. E poi, oggi, Putin vuole trattare?