Forse una ragione ce l’ha quando dichiara di non stare sereno. Conte intuisce il pericolo. Non ce l’ha però, la ragione, quando di Renzi si lamenta in modo querulo, dato che l’inazione dei concorrenti rimanda all’immaginario della pigrizia o dell’assurdo: se vige la competizione, anche nella maggioranza, di per sé non è male. Piuttosto ha ragione nel dire, con maliziosa baldanza e senso di sfida, che siamo solo agli inizi. L’attuale equilibrio politico, come pure l’articolazione che ne sostiene l’impianto, è destinato a modificarsi profondamente. E in tempi non molto lunghi.

Il paradosso è che i politologi si affannano a teorizzare la scomparsa del centro e i politici, per contro, agiscono proprio con l’intento dichiarato o sottinteso di occuparlo, il centro. Vale appunto per Conte e per Renzi, entrambi destinatari di attenzioni da parte di un’Italia dinamica, dotata del giusto ottimismo, caparbiamente anti declinista. Un’Italia naturaliter di centro. Ma vale anche per Di Maio – un socialdemocratico autentico, in carne ed ossa, come lo erano i figliastri di Saragat – sebbene avvenga per lui che la decrescente reputazione ne offuschi la perizia nel camuffare le ambiguità di un soggetto atipico, il M5S, basato sull’enigmatica e rapinosa piattaforma Rousseau. Dunque, s’incontrano e si scontrano tutti nel punto laddove appare vincente l’esserci, ovvero al centro del sistema politico.

Con una eccezione. L’unico infatti a rifiutare il centro rimane Zingaretti, interessato semmai a restaurare la sinistra come categoria onnipervasiva delle istanze di giustizia e solidarietà, sottratte in via di principio alla concorrenza centrista, specialmente dopo lo scissione di Italia Viva. Alla sinistra viene prescritta una cura omeopatica, in definitiva per surrogare ed estinguere il populismo con il ritorno al vero popolo, anzi alla vera unità di popolo. Ma è allora per questo – si leggano bene gli ultimi sondaggi – che il motore del Pd batte in testa, rumorosamente. Vuol dire che la “linea politica”, per quanto possa presentarsi aggressiva e roboante non trova corrispondenza con i processi in corso a livello sociale.

Tuttavia Zingaretti, in base al paradosso delle cronache quotidiane, sta nel governo con perfetta logica di bilanciamento, di fatto costituendosi come cerniera della maggioranza. La dialettica tra Di Maio e Renzi, un po’ studiata per annebbiare il ruolo del Pd, costringe la sinistra che vuole farsi sempre più sinistra a gestire una posizione alquanto conforme alla tradizionale opera di equilibrio e di sintesi, a lungo rivendicata ed esercitata, in un’altra fase storica, dal partito democristiano. Oggi un drone adibito alla rilevazione dell’area di maggioranza fotograferebbe un Pd dislocato costantemente nel punto più utile alla difesa della stabilità del governo. La novità è una “sinistra di centro”, come l’avevano definita gli sherpa del partito laburista di Blair e come la potrebbero modellare (un “centro a sinistra”) gli eredi del popolarismo, che non conosce una corrispondente elaborazione teorica né un gruppo dirigente in sintonia con questa oggettiva trazione al centro.

Se allora il dibattito nel Pd rimane ancorato ai vecchi schemi, dove una certa interpretazione del progressismo inclina a omettere il valore della risorsa cristiana, nulla può salvare dal fallimento la ”rivoluzione parlamentare” che, in piena estate e con sorpresa di molti, ha condotto al varo del nuovo governo. La maggiore responsabilità che pesa sulle spalle degli uomini del Nazareno è fare chiarezza sulla forma partito derivante da questa traversata nel deserto della post-ideologia. In assenza di una dottrina che assuma il pluralismo e l’identità nel quadro di una nuova visione politica, può andare delusa ogni speranza di evoluzione del Pd come architrave della democrazia. Un’architrave, in sostanza, quale fu la Dc.