Nel suo intervento al Senato, che “Il Domani d’Italia” pubblica integralmente, Renzi si è inserito da par suo nella commemorazione pubblica di Franco Marini con un ricordo personale molto sentito e al tempo stesso stimolante.

Vediamo di coglierne il nucleo essenziale, con sano spirito critico. Non convince appieno il profilo che ne deriva per sintesi estrema. Secondo Renzi, Marini si è trovato a vivere da dirigente politico la crisi del cattolicesimo democratico e popolare, sforzandosi fino in fondo di pensarne un’evoluzione e uno sbocco.

È un’affermazione impegnativa, certamente non banale, ma bisognosa perlomeno di approfondimento. Si rischia di scivolare su un terreno insidioso. A riguardo, l’idea che l’ex Segretario del PPI abbia confidato nel “pensiero” come leva di cambiamento del popolarismo è vera fino a un certo punto, non essendo egli insensibile – per carità! – agli stimoli della cultura; tuttavia, anche contro le sue stesse aperture, si attenne pressoché integralmente a una fredda constatazione del blocco non solo politico-organizzativo, ma per l’appunto “ideologico”, a cui era giunto il movimento da lui sempre identificato come frutto maturo dell’enciclica Rerum novarum del 1891.

Per questo, in coincidenza con un tratto fondamentale della sua formazione, prima di tutto sindacale, Marini dette mostra di affidarsi todo corde alle virtù dell’organizzazione, immaginando che in quella dimensione fosse possibile preservare il nucleo vitale di una tradizione, anche a dispetto del suo deperimento ideale. In sostanza, si è trattato – proprio nel caso di Marini – di uno sforzo di contenimento e quindi di conservazione, in attesa di un riscatto comunque presagito lontano e difficile. Uno sforzo ammirevole, anche se condizionato dalla rassegnazione.

L’afflato organizzativo superava l’elemento per così dire sentimentale della politica mariniana, quell’elemento originario di militanza o meglio di lotta, secondo il parametro dell’autentico impegno sindacale. Era appunto un di più che scaturiva dalla sfiducia nella risorsa del lavoro intellettuale non per un “pregiudizio barbarico”, bensì per un calcolo onesto, ma forse precipitoso, della inanità delle forze impegnate sul campo. Alla fine, il suo pragmatismo finanche ammirevole mostrava questa incancellabile ritrosia a maneggiare le armi spuntate di un pensiero che giudicava, in fin dei conti, ricco di storia e povero di attualità. Nemmeno a Renzi doveva sfuggire questa “inquietudine” che domina il tragitto umano e politico di un interprete generoso del popolarismo.