Il senatore a vita Mario Monti è tornato ieri a parlare del suo partito, nato e abortito nel 2013-2014, cercando in questo modo di suggerire alcuni spunti di riflessione sul futuro politico di Conte. Nell’intervista resa al Corriere della Sera rivendica la ragione di fondo che giustificò l’operazione “Scelta Civica”, ovvero la costruzione di una  diga al centro dello schieramento politico contro “una maggioranza, di destra o di sinistra, marcatamente populista e antieuropea”. Sotto questo profilo il bilancio è stato positivo: “Quella pattuglia – dice Monti -, con il suo 10%, ha fatto da argine alle derive populiste. Senza, non ci sarebbero state la rielezione di Napolitano e poi l’elezione di Mattarella. Né a Palazzo Chigi la sequenza Letta-Renzi-Gentiloni”.

Fin qui la pagella dei voti positivi. Il problema tuttavia è un altro. Quel partito, messo in piedi con affanno allo scadere della XVI legislatura e dato in mano a un gruppo dirigente eterogeneo, anzitutto preoccupato di sfruttare il “montismo” più che di proporne una versione ideologica adeguata, è naufragato per un difetto di visione politica. A un certo punto, nel mezzo della campagna elettorale, sembrava svanita la giustificazione della proposta neo-centrista: a conti fatti il risultato del 10 per cento conseguito nelle urne premiava oltre misura un’intuizione originariamente  valida, sebbene poi gestita, appunto, nel peggiore stile doroteo. Il resto, nella successiva pratica parlamentare, non poteva che essere lo scomposto svoltolarsi di una funzione importante ma residuale, senza più quell’ambizione che avrebbe dovuto innervare una sedicente iniziativa di taglio addirittura neo-degasperiano.

Monti sorvola sulle cause di questo fallimento. Preferisce destreggiarsi, senza impegno, così da rendere fungibile il parere sul nuovo partito personale a guida Conte. Traspare un certo scetticismo, non fino al punto, tuttavia, di certificare l’inadeguatezza del proposito. Sarebbe invece interessante approfondire il perché degli eventi e delle connesse aspettative che resero comunque inevitabile l’operazione Monti del 2013; tanto più che a confronto, nel groviglio attuale delle vicende politiche nazionali, ben diverso è il carattere dell’ipotetica operazione Conte. Ci sono troppe differenze tra l’una e l’altra, giacché latita al momento tra gli addetti alla fureria del vagheggiato esercito contiano quel fattore di “eroismo civico” che pure si coglieva alla base dell’avventura, ben motivata e mal congegnata, dell’ex rettore della Bocconi.

Oggi il massimo di legittimazione al sorgere del partito di Conte deriva dalle incerte e sempre mutevoli convenienze del Pd. Si vuole a sinistra, in qualche modo, incerottare il consenso fluttuante dell’elettorato intermedio, dando la stura a un rilancio della tattica di copertura al centro, in modo persino fantasioso, quale che sia cioè la natura e la consistenza ideale di questo centro. Dove non ci sono suggestioni e stimoli, con l’ardore di un impegno al servizio del Paese, difficilmente cresce la pianta della buona politica. Gli amici compulsano i sondaggi, finora benevoli all’eccesso, ma questa aritmetica del consenso non autorizza a celebrare anzitempo il successo di una rischiosa trasformazione di Conte da capo di governo a capo di partito. Per fare che? Per andare dove? Sono domande più che ragionevoli, se si pensa alla complessità delle sfide che si annunciano a ridosso della presa in carico di una gigantesca politica di ricostruzione post Covid-19.

Spesso si confonde la vera politica con la manutenzione degli affari correnti o il fervido controllo delle leve di comando. Tra la fortuna e la virtù ì Machiavelli del marketing politico si attengono preferibilmente alla fortuna, senza inibizioni. A Palazzo Chigi, anche nel clima di una strisciante crisi di governo, una certa baldanza la fa da padrona. È un’ebbrezza da vincitori a tavolino, con anche l’arma del partito nella guaina. Forse Monti, nella gustosa curialità della sua intervista, avrebbe potuto dire quanto sia insidioso l’entusiasmo del potere e come al solito possa farsi maschera dell’opportunismo.