E’ noto che gli apparati amministrativi possono (e devono) assicurare la legittimità d’azione dello Stato e determinare, specialmente in materia di imposizione fiscale e materie anagrafiche, un accertamento di legalità da parte delle istituzioni. La professionalizzazione delle cariche ministeriali e dei pubblici uffici ha tuttavia prodotto, in Italia, il conferimento di una molteplicità di ruoli all’interno della macchina organizzativa nazionale che negli anni – è del 1908 la prima redazione del testo unico sugli impiegati civili dello Stato – è cresciuta a dismisura delegando molte discipline in materia ai soggetti giuridici decentrati. Sono proprio l’accavallamento delle attribuzioni e il conseguente conflitto delle funzioni che in tempi recenti hanno provocato sistematici black-out al sistema, rendendo le competenze quasi indecifrabili agli occhi della popolazione. Ma come nacque il reclutamento di migliaia di persone da inserire nelle numerose branche amministrative e burocratiche della nuova nazione? Ricontrolliamo.

Dopo il 1861, ai primordi dell’unificazione, la burocrazia è di dimensioni ridotte rispetto
ai successivi modelli, ed è retta da un’élite in prevalenza piemontese che ha avuto l’onere – avocando a sé ogni decisione all’uopo – di accorpare all’interno del proprio organico tutto il personale facente capo all’ex Regno delle Due Sicilie, allo Stato della Chiesa (eccetto Roma) e alle altre città-stato preunitarie, uniformandone strutture e sovrastrutture. La nuova amministrazione del Regno d’Italia si compone inizialmente di circa cinquantamila unità delegate al personale, il quale assorbe funzionari e impiegati dei vecchi dipartimenti (compresi quelli militari), dando luogo a una mobilità sociale che per l’Italia, in età contemporanea, rappresenta un unicum a tutto tondo. Burocratizzare, allora, significava anche integrare; oltre alla predisposizione della macchina ministeriale, impiegatizia e amministrativa, c’era infatti l’esigenza-necessità di inglobare in un unico esercito le migliaia di soldati e ufficiali preesistenti – quelli sabaudi – e quelli provenienti dagli altri apparati militari, fossero questi volontari garibaldini o reduci borbonici rimasti senza divisa. All’epoca, uniformare i settori equivaleva a rendere il sistema come un motivo d’identificazione nazionale e un veicolo di standardizzazione della lingua (anche se era ancora presto, visto che più dei due terzi della popolazione era totalmente analfabeta). Nel tempo, non è stato più così.

Ad accelerare l’allestimento di un impianto approntato a razionalizzare le attività erano intervenuti elementi nuovi come l’industrializzazione e la legislazione, redatta stavolta su scala nazionale. Ma più di qualsiasi altra forma di provvedimento tesa a coinvolgere gli italiani in un contesto comune ci pensò la politica fiscale, che pochi decenni dopo avrebbe assunto i connotati di un microcosmo capillare difficilmente gestibile. Era stato eretto un monolite amministrativo, come mi sono permesso di proferire. Chi avrebbe pensato, più di centocinquanta anni fa, che il burocratismo si tramutasse da veicolo di appartenenza condivisa a inguaribile disfunzione dell’amministrazione pubblica? Dopo il 1870, la durissima pressione tributaria, rivolta a coprire i costi mastodontici dell’unificazione e a disporre l’organizzazione ex novo delle infrastrutture, non risparmiò neanche quei lavoratori agricoli che producevano in proprio per attingere a una fonte di sostentamento alimentare. La tassazione indiretta, in particolare, colpì in modo indiscriminato i consumi interessando persino beni primari come il sale e il granturco. La necessità di sopperire alle uscite per la guerra contro l’Austria, inoltre, rappresentò un problema ulteriore che fece aumentare le operazioni di incameramento del denaro nelle casse statali. Fiscalità, tassazione, dazi, licenze, permessi, autorizzazioni. Così cominciò e così ha continuato negli anni. 

All’insegna del regit et tuetur, Max Weber definì la burocrazia come “un processo di razionalizzazione della società […], una trasformazione radicale, costituita da procedure sistematiche, precise e calcolate logicamente, le quali implicano regole impersonali che vanno a interessare ogni aspetto della vita sociale”. Il problema è che in Italia, durante il XX secolo, tali principi vennero esasperati, non razionalizzati. Nel marzo 1861 era nato un gigante informe che solo poco più di un secolo dopo avrebbe decuplicato i suoi tentacoli, irretito le attività e forse anche sé stesso. Si pensi che di lì a pochi anni – il riferimento è all’età giolittiana – l’impegno a raggiungere un maggior equilibrio geografico in tema di funzione pubblica avrebbe interessato ben 300.000 persone. Suddetto processo di assorbimento di impiegati, definito dai media dell’epoca con il termine “meridionalizzazione del pubblico impiego”, il quale determinò l’assunzione di decine di migliaia di unità presso le poste, il genio civile, le ferrovie e gli uffici ministeriali, rappresentò la prima fase della grande burocratizzazione del paese.

Oggi, in pieno terzo millennio, i dipendenti pubblici in Italia sono più di tre milioni e mezzo e fanno capo a quasi 13.000 diverse strutture (circa il 15% del totale dell’occupazione, fonte Il Sole 24 Ore). Ne va che l’elefantiasi amministrativa italiana, oltre che superata sotto l’aspetto dell’impatto con l’utenza, non sembra neanche più congruente con un modello di democrazia occidentale avanzato, specie quando frena sistematicamente gli investimenti e paralizza la circolazione di risorse. Nell’era della globalizzazione, suddetta macchina appare molto simile un colosso putrefatto che ha estinto il suo ciclo e necessita di un forte rinnovamento.