Non erano bastati l’omicidio di JFK e l’ondata di violenza che interessò alcune zone del Sud degli Stati Uniti a fermare i movimenti antisegregazionisti dei cittadini di colore, i quali caratterizzarono tutta una fase della storia americana della seconda metà del XX secolo.

I primi anni Sessanta, contraddistinti dalla tragedia sfiorata dei missili russi diretti verso le coste cubane che fece temere il peggio, furono quelli che impressero una svolta decisiva all’integrazione degli afroamericani nel tessuto sociale e legislativo statunitense, che pure aveva – come sappiamo – mostrato una certa (e a tratti feroce) resistenza nei confronti del raggiungimento della parità dei diritti dei “niggers”.

E mentre continuava ad acquisire grande popolarità la figura del pastore protestante Martin Luther King, leader indiscusso e icona dell’attivismo nero, il neo-Presidente Lindon Johnson si rese protagonista, per quanto fu nelle sue possibilità, dell’ampliamento di alcuni progetti di legislazione sociale pianificati anni prima da Kennedy: tra questi, l’assistenza medica ai meno abbienti e i sussidi ai poveri.

E’ in questo contesto che diversi episodi legati alle contestazioni in terra statunitense si trasformarono in veri e propri simboli destinati a fare storia, e non solo in ambito politico e sociale, ma anche nel costume e nella letteratura. Chi non ricorda le marce organizzate e compiute dagli afroamericani e il grande dibattito (oltre agli scontri) che queste provocarono in tutto il mondo? Chi non ricorda la lotta ideale del grande Mohammed Alì, disposto a rimetterci la libertà e i titoli sportivi conquistati sul campo pur di rivendicare la piena libertà dei più deboli e degli emarginati?

Correva il 7 marzo del 1965. L’imperativo era quello di ottenere, da parte dei neri, il diritto al voto previa registrazione alle liste elettorali. Con questa idea, pochi manifestanti di Selma diedero luogo a un corteo più o meno spontaneo che fu respinto a manganellate e a lacrimogeni dalle forze dell’ordine (con l’intervento violento del KKK). Quella dimostrazione fu denominata “The bloody Sunday”, e si trattò solo di un anticipo. La seconda marcia, effettuata appena due giorni dopo, fu più partecipata (ne furono protagoniste oltre duemila persone) e si contraddistinse per la ormai manifesta intenzione di dirigersi – anche in senso allegorico – da Selma a Montgomery, capitale dell’Alabama.

Vi prese parte lo stesso King, nonostante continuasse a ricevere minacce di morte. Stavolta il gruppo arrivò a Edmund Pettus Bridge, un ponte dell’area di Selma divenuto a sua volta un simbolo poiché negli scontri perse la vita il pastore bianco James Reeb, convinto fautore dei diritti universali degli afroamericani. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. La terza marcia, indetta per il 21 marzo, venne autorizzata e protetta dalla polizia, dall’esercito e addirittura dall’Fbi.

Il corteo, durante il tragitto, si ingrossò, sino a raggiungere le oltre ventimila unità. La processione si concluse a Montgomery il 25 marzo, giorno in cui King pronunciò il suo atteso discorso a favore dell’integrazione. Da quella data, la lotta per i diritti civili e costituzionali avviata negli Stati Uniti assicurò un po’ di più agli individui di ogni razza e sesso la possibilità di manifestare la propria volontà durante le elezioni. E probabilmente, da quel giorno, gli Stati Uniti non furono più gli stessi.