Maternità surrogata: il nome e il senso di una scelta.

Accogliamo questo contributo con l’avvertenza di precisare che l’interesse a mantenere vivo il dibattito su “Il Domani d’Italia”, specialmente a riguardo di questioni delicate e controverse, non oscura la linearità della nostra posizione editoriale, identificabile in questo caso nell’articolo di Francesco Provinciali, da cui in effetti prende spunto la dott.ssa Mazzola.

Nell’articolo intitolato Una scelta sui generis, ovvero il distacco ideologico dall’identità sessuale del 4 agosto 2021, Francesco Provinciali affronta il tema dei provvedimenti legislativi legati all’identità di genere e alla “maternità surrogata”, con tutte le implicazioni riguardo alle donne e ai minori. Tenendo conto della presa di posizione del gruppo femminista “RadFem!Italia-Solo con donne”, Provinciali sostiene che “…il tema dell’utero in affitto come passaggio strumentale per dar vita a una creatura…è un abominevole preambolo alla mercificazione del corpo femminile”.

Come è noto, con l’appellativo “madre surrogata” si indica una donna che ha deciso di portare a termine una gravidanza per conto di persone che non sono in grado di concepire o avere figli. Si parla in questo caso anche di “utero in affitto”. La tipologia delle richieste e la modalità degli  interventi è diversificata; in ogni caso, in Italia la legge vieta tale pratica, mentre in altri Stati è consentita, sia a coppie eterosessuali che omosessuali. Esistono agenzie apposite, che lavorano per mettere in contatto la coppia richiedente con le donne disponibili.

Risulta opportuna una  riflessione  riguardo ai  presupposti che danno senso e significato a tale orientamento, anche alla luce  dei contributi della ricerca e degli insegnamenti della storia. Gli studi psicologici e psicoanalitici hanno messo in luce il ruolo fondamentale della madre nello sviluppo infantile, come pure il valore simbolico del “materno”. Si tratta di argomenti universalmente condivisi, diventati ormai patrimonio  comune.

Per quanto riguarda la storia, vale la pena seguire l’indicazione di Marc Bloch circa l’opportunità di porre agli antichi le domande che riguardano l’attualità. Ed ecco la domanda: grazie a moderne metodiche, si ripropone forse per la donna un ruolo antico, basato su di un pregiudizio che ha attraversato secoli della nostra cultura? Si tratta di evocare la vicenda della funzione femminile nella procreazione o meglio della concezione che se ne è avuta dalle origini sino all’epoca moderna.  

Come è noto, gli antichi ignoravano il meccanismo della fecondazione. Fu il medico Nicola Stenone, nel ‘600, a iniziare a fare chiarezza sulla riproduzione umana, che è stata pienamente spiegata solo nel XX secolo. Quali erano le loro teorie al riguardo ? Possiamo scoprirlo grazie alle testimonianze dei classici, in particolare dei tragici greci, di Aristotele. Questi scritti infatti, oltre che apprezzati nel loro valore letterario, vengono considerati documento storico di civiltà, ossia testimonianze di cultura, fonti attendibili per quel che riguarda i costumi, la vita politica, le norme etiche e sociali, le regole del potere, la mentalità, i valori, la psicologia.

Di particolare interesse per l’argomento in questione è Eumenidi, terza parte della trilogia di Eschilo, alla quale viene riconosciuto un valore spiccatamente politico. Allude infatti all’istituzione del primo tribunale della storia, l’Areopago. I riferimenti all’opera sono stati anche di recente numerosi e autorevoli, come  quello della ministra Cartabia, nella sua  lectio magistralis del gennaio 2020.

La prima teatrale di Clitemnestra è andata in scena nel luglio 2021 nell’ambito del festival “Cantieri dell’Immaginario”. Il personaggio della protagonista è stato rivisitato alla luce della problematica contemporanea, e questo spiega la domanda inquietante che sembra rivolgere agli spettatori, ovvero: Oreste, suo figlio e assassino, è stato assolto perché la madre non conta nulla?

Nel dibattito che si svolge fra il protagonista della tragedia di Eschilo, Oreste – reo di avere assassinato sua madre Clitemnestra – e le Erinni, divinità della vendetta e del rimorso, viene esplicitato l’argomento fondamentale della difesa. Da qui si intende la prospettiva degli antichi sulla riproduzione umana: l’uomo procrea perché fornisce il seme che conferisce il carattere ai discendenti; la donna si limita a fornire il luogo dello sviluppo e del nutrimento.

Oreste:

Di due crimini era macchiata…Uccise mio padre, e insieme il suo sposo.

Corifea  

Non era consanguinea dell’ucciso.

Oreste :

E io sono consanguineo di mia madre ?

Corifea :
Non ti nutrì nel grembo, o matricida? Ripudi forse il sangue di tua madre?

È Apollo a venire in soccorso di  Oreste, con la seguente dichiarazione: “Quella che tu chiami madre non è la genitrice, è solo la nutrice d’un germe seminato di fresco. Il maschio fecondante semina, mentre ella – ospite ad ospite – preserva la pianticella…”. Alcuni anni dopo, sarà Euripide a ribadire il medesimo concetto: “E’ stato il padre a generarmi, tua figlia non ha fatto che partorirmi. Lei è stata come il campo arato che raccoglie il seme sparso da altri”. Ulteriore conferma viene da Aristotele: “C’è somiglianza anche nelle forme tra un ragazzo in età puberale e una donna. La donna è come un uomo sterile. Essa è infatti caratterizzata da un’impotenza”.  

L’uomo è il seme, la donna è il campo: è ricettacolo passivo. Si tratta di una credenza comune nell’antichità, diffusa ovunque, dalla Grecia all’Egitto, all’India, specchio della cultura patriarcale, anche se  sostanzialmente basata sull’ignoranza del meccanismo della fecondazione. Ha attraversato i secoli, ha avuto importanti ripercussioni sul piano sociale e persino giuridico. Ha fornito il fondamento al diritto romano: diritto basato sul legame di sangue, trasmesso dal padre ai figli. 

La questione, nella prospettiva del minore, sembra non ricevere la debita attenzione nelle varie sedi del dibattito. Scarseggiano anche documentazioni attendibili riguardo ai percorsi evolutivi di figli allevati da coppie eterologhe. Cogliendo possibili analogie, faccio riferimento alla mia esperienza clinica con giovani ventenni che erano stati adottati nel corso della prima infanzia. Essi avevano ottenuto di conoscere l’identità e di incontrare la loro madre biologica. La richiesta del trattamento psicologico era stata motivata dal bisogno di comprendere le ragioni profonde della loro scelta, oltre che di essere supportati in un momento di forte  ansietà.

I genitori adottivi si erano mostrati all’altezza del compito educativo sotto tutti gli aspetti. Nondimeno, giunti al compimento dell’adolescenza, una domanda si era imposta con insistenza: da dove vengo? chi è quella che mi ha generato, come viveva, in che modo pensava e agiva?

Psicologi e psicoanalisti, a partire da Stanley Hall, considerato il pioniere degli studi scientifici sull’adolescenza,  hanno descritto la complessità di questa fase della vita, caratterizzata da conflitti, brusche oscillazioni, instabilità. Un periodo  di ricerca di se stessi e di sperimentazione, prima di entrare a pieno titolo nella vita adulta, con un’adeguata consapevolezza di sé, delle proprie risorse e dei propri limiti.

In tale prospettiva lo psicologo Erik Erikson ha configurato la ricerca dell’identità quale meta psicologica dell’adolescenza, ossia come l’obiettivo prioritario cui tende la vita psichica. Interrogarsi sulla matrice originaria, e fare i conti con questa, è parte integrante di tale complesso processo evolutivo.

Due considerazioni si impongono a questo punto, in rapporto alle responsabilità dell’adulto. La prima riguarda l’atteggiamento da tenere  nei confronti della mutevolezza e dell’instabilità adolescenziale. Si tratta di una condizione che va intesa come percorso di sperimentazione e di ricerca della propria identità. Deve quindi essere seguita e supportata, non certo ipostatizzata quale categoria assoluta dell’esistere e dell’essere, come sembra stia avvenendo in taluni contesti. 

È necessaria inoltre la consapevolezza dei bisogni della crescita, dei fattori affettivi, relazionali e sociali che possono favorirla o renderla particolarmente complessa. Fare i conti con  le proprie origini è uno di questi bisogni. Le risposte degli adulti dovrebbero allora risultare esaurienti dal punto di vista dei destinatari, piuttosto che corrispondenti all’interesse di coloro che le forniscono. 

 

  • Grazia Mazzola – Psicologa, Psicoterapeuta, Psicoanalista C.I.P.A, già Dirigente Psicologa presso il Dipartimento di Salute Mentale e Professore a Contratto – Università di Pavia.