Proponiamo uno stralcio dell’articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Fabio Canessa

Intanto, l’insegnante è più un mestiere o una vocazione?

In un mondo ideale dovrebbe essere una missione per traghettare anime da un nulla a un qualcosa. Quello della vocazione è un concetto romantico molto bello, ma inevitabilmente l’insegnante sta diventando sempre più un mestiere, perché i precari hanno bisogno di uno stipendio.

Per definire l’insegnamento, perché lei ha intitolato il suo libro «Lezioni di volo e di atterraggio»?

Il mito di Icaro dimostra che l’uomo ha di per sé un’aspirazione all’alto. Ma nella nostra costituzione psichica abbiamo una tendenza verso il sublime e una tendenza al terreno, come dei due cavalli di Platone, uno tira verso l’alto e uno verso il basso. Pensi a Petrarca, dimidiato. Abbiamo una parte di angeli e una di fango, perché tutti quanti siamo stati creati con l’argilla da uno sputo di Dio e quindi queste due cose ogni tanto si prendono a pugni. La tendenza al volo fortunatamente ce l’abbiamo e, quando scatta la scintilla, ci diciamo che non siamo fatti per stare coi piedi per terra a ripetere ossessivamente e quotidianamente azioni incomprensibili. Dobbiamo fare qualcosa che rallegri, dia vita, forza e vigore al desiderio che abbiamo dentro di noi di uscire dal guscio e vedere il mondo con occhi che non sono solo utilitaristici. Quello che conta di più al mondo è partecipare dell’essere, dell’esistenza, tentando di coglierne il segreto, andando dietro alla luce, mai al buio. Questo è volare: porsi continuamente domande e, quando si può, appropriate risposte. L’atterraggio non è camminare a terra, ma è l’arte di tornare dal sublime alle cose quotidiane, con molta dolcezza, perché la vita può essere interpretata in due modi: o sei uno che vive sulla terra e ogni tanto fa dei voli oppure sei uno che in genere vola e ogni tanto fa qualche atterraggio.

Lei di quale gruppo fa parte?

Del secondo. Cerco di insegnare ai miei studenti che bisogna sempre tornare alla vita comune, ma non deve essere la nostra costante: la libertà di pensiero e di emozione deve essere l’acme e il senso dell’esistenza. Non si trovano nell’atterraggio, che è materia; io preferisco annusare il celeste, anziché riempirmi le narici di terra.

Qual è il maggiore ostacolo che l’insegnante di oggi deve superare?

Viviamo tutte le cose come se non esistesse una teleologia. Non sappiamo quale sia il fine vero di costruire un palazzo o di tirar fuori il latte da una mucca o di produrre auto: tutte queste cose hanno il fine limitato di soccorrere un bisogno del momento, al di là del quale non c’è altro. Tutto il produrre umano, tutta l’economia umana è senza scopo, è difficile trovare un finale perfino per cose bellissime come salvare una foresta o insegnare cos’è la democrazia. Ma perché, da dove viene l’idea, giustissima, che bisogna essere tutti uguali? Questo fine ultimo va ricostruito nella società, prima di tutto negli studenti, da professori che sappiano adeguatamente suggerire conforti filosofici o religiosi all’esistenza. Che altrimenti, presa così com’è, diventa solo mangiare e vivere. La missione dell’insegnante è quella di uscire dal bisogno consumato (aver mangiato, accoppiarsi, vedere il cielo, abitare in una casa) andare al di là dei bisogni primari. Non è la prima soluzione quella che conta, ma la successiva.

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