Moderati? Anche no

Per svoltare verso una politica nuova, più che affidarsi a parole effimere (“moderati”, “centro”) dal contenuto perlomeno soggettivo, sull’esempio di cento anni fa occorre costruire un programma chiaro e su quello cercare consensi e convergenze.

“La moderazione fa parte dello stile di governo, non segna la figura del cattolicesimo democratico”. Questa lapidaria sentenza di Guido Bodrato nella sua ultima intervista, ci permette di avviare un chiarimento su un termine – “moderato” – che nel nostro dibattito è diventato ambiguo. L’ambiguità nasce dalla diversa accezione che si può dare al termine, non sempre corrispondente tra chi lo scrive e chi lo legge.

Ritengo che la moderazione sia una disposizione dell’animo, non una categoria politica. Moderazione è sobrietà ed equilibrio nei comportamenti, nelle parole, nei giudizi. Possiamo persino considerarla affine alla “mitezza” evangelica, virtù destinata a grandi ricompense – “Beati i miti perché erediteranno la terra” (Mt 5,5) –. E allora evviva la moderazione, modello da perseguire anche nella città dell’uomo dopo decenni di politica muscolare e urlata, che ha zittito il dialogo costruttivo e dato spazio ai cinici, ai prepotenti, agli imbonitori.

Quando però la moderazione si storicizza, viene cioè sradicata dal vissuto personale per essere usata come categoria politica, si trasforma in moderatismo, che è solo la maschera conciliante del più concreto conservatorismo. Alcuni studiosi del movimento cattolico hanno diviso il Partito popolare di Sturzo tra “cattolici democratici” e “clerico-moderati”, faticando però a spiegare la trasformazione di questi ultimi in “clerico-fascisti”. Il fascismo evidentemente non c’entra con la moderazione. Usando invece la più corretta definizione di “clerico-conservatori”, si capisce meglio la successiva adesione al fascismo, giustificata dalla logica del “blocco d’ordine” in difesa degli interessi costituiti.

In tempi recenti, del termine “moderati” si era appropriato Berlusconi, per creare un vantaggioso bipolarismo mediatico in opposizione ai “comunisti”. Ovviamente, posti di fronte a questa scelta, gli italiani in gran maggioranza sono orientati alla moderazione più che al comunismo… Il Cavaliere però si è lasciato sfilare il marchio dall’abile pubblicitario e politico Mimmo Portas che ha registrato il simbolo “Moderati” e utilizzato il suo partito in ambito piemontese come mezzo di recupero per politici in crisi, di varia provenienza e in cerca di identità, da utilizzare come alleato (ben ricompensato) del PD. Quando però il brand “Moderati” si è cimentato in elezioni politiche nazionali, le percentuali ottenute sono state da prefisso telefonico.

Quindi, malgrado l’uso frequente ed evocativo del termine (ultimo della serie persino Romano Prodi), il “moderato” in politica non è indice automatico di consenso.

La nostra diffidenza sul termine non è però dovuta al timore di una modesta performance elettorale. Nasce soprattutto dalla convinzione che le parole sono vuote, e quindi insufficienti, se non vengono riempite di contenuto. Essere al centro, ad esempio, non dice nulla, se non indicare una collocazione intermedia tra due lati, che possono essere la destra e la sinistra. Anche queste due storiche categorie della politica, come etichetta, hanno mutato negli anni il loro significato. E tutti noi conosciamo bene la difficoltà nello spiegare cosa caratterizza il nostro glorioso nome di Popolari, sulla scia di Sturzo nella tradizione del cattolicesimo democratico e sociale, rispetto alle derive conservatrici del PPE.

Non dico che i nomi abbiano quasi nessuna rilevanza, ma ritengo – in ottima compagnia con Bodrato – che una forza politica si debba caratterizzare per il suo programma. Oltre ai valori enunciati, sono gli obiettivi, le proposte concrete per affrontare i problemi sociali ed economici che illustrano un partito.

Se i “liberi e forti” vogliono di nuovo dar vita a una formazione politica devono parlare attraverso “un Programma che porti a superare l’attuale cultura individualistica, che ridia sostegno alla maternità e alla natalità, che ripensi il lavoro in termini nuovi e con nuove tutele, che ridisegni il welfare, che ci risintonizzi con il sogno di un’Europa federale e dei popoli, che pensi ad un fisco amico delle famiglie e delle aziende che danno occupazione, produttività, che sono rispettose dell’ambiente, che sappia disegnare un sistema formativo flessibile e il sapere faccia crescere in umanità e fraternità, e così via”. (Grazie a Carlo Baviera per queste parole che ho preso a prestito dal suo ultimo articolo).

Ma per attuare i nostri punti forti, dobbiamo talvolta abbandonare la moderazione.

Il bravo medico ricorre in certi casi al pannicello caldo o alla caramella a effetto placebo, prescrive il farmaco e l’antibiotico quando occorrono, usa il bisturi per estirpare il male quando non c’è altro rimedio. Il bravo politico non può sempre essere “moderato” nell’affrontare i problemi del proprio tempo.

In Europa bisogna battere i pugni per uscire dall’austerità finanziaria che sta strangolando i ceti medi e popolari, e sonori ceffoni devono essere dati per svegliare le coscienze sull’emergenza ambientale che ci aspetta, e che né i moniti di papa Francesco né gli scioperi di Greta e dei suoi giovani seguaci sono ancora riusciti a mettere al centro dell’agenda politica (se non mondiale, almeno della UE).

In Italia, anche per rilanciare la produttività, occorre una politica aggressiva (questo aggettivo è molto poco “moderato”, ma ne userò altri ancora di egual tenore) contro i mali atavici della nostra società. Lotta spietata alla criminalità organizzata che opprime gli onesti e crea un vero “antistato” che espande sempre più i suoi tentacoli. Intransigenza verso i corrotti nella pubblica amministrazione, che danneggiamo la credibilità della politica e delle istituzioni. Contrasto inesorabile a evasione ed elusione fiscali: non potremo mai avere una politica dei redditi degna di questo nome se al gettito fiscale annuo di poco superiore ai 500 miliardi continueranno a mancare i soliti 120/130 miliardi, una marea di tasse evase che, una volta recuperate, avrebbero il duplice beneficio di alleggerire il carico fiscale di chi paga (“pagare tutti per pagare meno”, ricordate?) e ridurre gradatamente l’abnorme debito pubblico.

Riteniamo che le diseguaglianze siano diventate inaccettabili? Se rispondiamo di sì, e non solo per tranquillizzarci la coscienza, dobbiamo proporre correttivi che tolgano a chi ha troppo per dare a chi ha troppo poco. Sapendo che chi si vedrà tolto qualcosa non sarà contento (“È più facile dal no arrivare al sì che dal sì retrocedere al no”, ammoniva Sturzo).

Riteniamo che solo un grande investimento nella formazione e nel sapere ci possa mantenere in una condizione di benessere e crescita? Allora dobbiamo dirci che la scuola italiana ha bisogno di recuperare la sua funzione di ascensore sociale valorizzando a tutti i livelli il merito, che premierà alcuni e penalizzerà altri. Anche qui creando degli scontenti.

Riteniamo che la burocrazia sia troppo invadente, che leggi e adempimenti siano troppi, e invochiamo una semplificazione delle norme e una giustizia più snella e rapida? Allora dobbiamo essere consapevoli che la gran parte dei 312.663 avvocati italiani (fonte www.digilex.it) non vedrà di buon occhio un siffatto obiettivo. Ma mi fermo con gli esempi di questioni che non possono venire affrontate senza creare resistenze e malumori, quelli che il “moderato” tipo tende ad evitare.

Siamo abituati da troppi anni a una politica becera che insegue il facile consenso, che parla alla pancia della gente, che ne amplifica gli umori negativi. Dato che le pance sono spesso in contrasto tra loro (tassisti e NCC, ad esempio) e che gli umori cambiano, vediamo anche cambiare in un battito d’ali le posizioni politiche. Con la coerenza diventata un reperto archeologico da sbeffeggiare.

Per svoltare verso una politica nuova, più che affidarsi a parole effimere (“moderati”, “centro”) dal contenuto perlomeno soggettivo, sull’esempio di cento anni fa occorre costruire un programma chiaro e su quello cercare consensi e convergenze.

E se iniziassimo a scriverlo?