Moralizziamo la vita pubblica

Dobbiamo essere convinti che il dovere di essere morali nella vita pubblica è superiore agli accorgimenti politici e alle mire di successo.

Articolo di Luigi Sturzo

Non è moderno il male di una vita pubblica moralmente inquinata. Sotto tutti i cieli,
in tutte le epoche, con qualsiasi forma di governo, la vita pubblica risente i tristi effetti
dell’egoismo umano. Quanto più è accentrato il potere e quanto più larghi sono gli
afflussi del denaro nell’amministrazione pubblica (stato, enti statali e parastatali, enti
locali), tanto più grandi ne sono le tentazioni. (…)

L’immoralità pubblica non è caratterizzata solo dallo sperpero del denaro, dai
peculati e dalle malversazioni. Applicare sistemi fiscali ingiusti o vessatori è immoralità;
dare impieghi di stato o di altri enti pubblici a persone incompetenti è immoralità;
aumentare posti di impiego senza necessità è immoralità; abusare della propria
influenza o del proprio posto di deputato, ministro, dirigente sindacale,
nell’amministrazione della giustizia, nell’esame dei concorsi pubblici, negli appalti è
immoralità. Non continuo in questa lista interminabile. Ebbene: il passato deve
insegnarci qualcosa.

Oggi tutti lamentano l’immoralità privata: ragazzi di strada corrotti, ragazze
prostitute, famiglie in disordine, mercato nero, profittatori della miseria comune per
arricchirsi, disparità enorme fra nuovi milionari gaudenti e resti umani miserabili senza
vesti, senza cibo, senza tetto. Ma non si corregge tale immoralità solo con le prediche o
con gli articoli sui giornali. Bisogna che la prima a essere corretta sia la vita pubblica:
ministri, deputati, sindaci, cooperatori, sindacalisti siano esempio di amministrazione
rigida e di osservanza fedele ai principi della moralità.

Mi rideranno dietro gli scettici di professione, coloro che non credono che l’uomo
sappia o possa resistere alle tentazioni. Il mio articolo non è diretto a loro. È
principalmente diretto ai democratici cristiani. Essi parlano spesso e con fede di portare
Cristo nel mondo che lo ha sconfessato; di difendere l’integrità della famiglia, la libertà
della scuola, l’insegnamento religioso; di promuovere l’attività sociale secondo gli
insegnamenti della Chiesa. A questi propositi nobili e veramente cristiani bisogna che
aggiungano anche la moralizzazione della vita pubblica.
C’è tanta corruzione in giro, ci sono tanti appetiti a danno dello stato che non si ha
più il senso della misura, né il pudore di richiedere quello che è semplicemente ingiusto.

Se non si mette una barriera in nome di principi saldi, sarà impossibile farvi argine.
Perché, in sostanza, noi chiamiamo cristiana la nostra democrazia? Quell’aggettivo non
indica l’idea di uno stato confessionale, né di un regime teocratico. Indica invece un
principio di moralità, la moralità cristiana applicata alla vita pubblica di un Paese Coloro che concepiscono la morale puramente individualista e individuale, mancano
della nozione vera di moralità che ha carattere collettivo o sociale. Infatti il nome deriva
da mos: costume, e indica il costume buono (l’altro, il cattivo, non sarebbe costume, ma scostume o deviazione). La morale cristiana ha legato i rapporti tra gli uomini con Dio, dando alla morale razionale una sanzione religiosa ed elevandola dal piano naturale a quello soprannaturale. Ma la morale è una ed è quella che deriva dalla natura stessa
dell’uomo che è natura razionale.

I democristiani, che portano nella vita pubblica una fondamentale concezione
religiosa, non possono cedere sul terreno della morale, e sono in grado di fare appello
agli altri che, anche senza essere cristiani praticanti, sentono nella loro coscienza
l’impero della morale.

Uomini come Benedetto Croce che sostengono la separazione dell’utile politico dalla
moralità, non arrivano però ad ammettere che nella vita pubblica si segua un presunto
utile, che abbia caratteri immorali (che per sé utile non sarebbe), invece di affermare
quella morale che, con l’apparenza di uno svantaggio immediato, crea le basi di una vita pubblica resa più forte per la morale e nella morale.

Ricordiamo l’episodio di 24 anni fa. Alla rivolta dei fascisti minaccianti la marcia su
Roma aderirono anche coloro che, non essendo fascisti e non ammettendo per
concezione morale la violenza privata, accettarono come male minore la violenza
fascista – manganello, olio di ricino, rivoltelle, moschetto – per impedire il temuto
avvento dei socialisti, che non sarebbero stati soli, perché i popolari avevano cercato una collaborazione con Turati, Matteotti e Treves, venuti a casa mia nel luglio del 1922
(donde il celebre telegramma di Giolitti da Vichy contro Sturzo e Turati).
Ebbene alcuni politici non fascisti preferirono il mezzo immorale, la violenza, per un
fine politico: l’eliminazione dei socialisti e dei popolari. E vinsero. Le conseguenze
furono 22 anni di tirannia, le guerre, la resa finale e la presente tragedia. Credettero di
averne un utile, sia pure per il Paese, che essi pensavano di difendere con le squadre
fasciste, e ne ebbero alla fine il disastro.

Dobbiamo essere convinti che il dovere di essere morali nella vita pubblica è superiore
agli accorgimenti politici e alle mire di successo.