New York-Kabul: ieri, oggi e domani.

Il ricordo dellattacco alle Torre Gemelli, la lettura degli ultimi accadimenti in Afghanistan: non basta la forza militare. Occorre la capacità di costruire ponti. Di fatto, la strapotenza americana non sarà sufficiente a superare lostacolo islamista senza un coefficiente superiore di ragionevolezza presente nella controparte.

 


Venti anni orsono, un atto dovuto fu definita dal presidente repubblicano George W. Bush l
invasione americana dellAfganistan. Ricordo che a New York la grande maggioranza di politici (di ambedue gli schieramenti), diplomatici, osservatori e comuni cittadini erano daccordo. Con il crollo del World Trade Center cadeva miseramente il mito dellinvulnerabilità dellAmerica. Si viveva un clima di esaltazione collettiva, caratterizzato da sentimenti di paura per possibili ulteriori attentati frammisti al desiderio di rivincita, ossia reagire allistante alla sfida lanciata alla superpotenza con la distruzione delle Torri Gemelle, situate nel cuore della città più famosa e nel principale centro finanziario degli Stati Uniti. Occorreva colpire al più presto inesorabilmente i mandanti di quella spietata clamorosa mattanza. Nei suoi quotidiani incontri con la stampa, Giuliani teneva alta la tensione morale, ripetendo quasi ossessivamente che la cittadinanza con la sua forza di reazione stava trasformando il giorno più buio nel giorno più luminoso, mentre il governatore George Pataki, nel ricordarmi con malcelato orgoglio le proprie origini calabresi, lanciava segnali di riscossa alla popolazione enfatizzandone gli innumerevoli mirabili esempi di altruismo, coraggio ed abnegazione. Del resto, bastava dare unocchiata alle devastanti macerie fumanti di Ground Zero – divenuto da allora meta di quotidiani commossi pellegrinaggi – per condividere lassoluta necessità di un intervento militare per lavare lonta del gravissimo attacco subito dal paese. Poi, nei giorni successivi all11 settembre, la Casa Bianca, sulla spinta della destra repubblicana (i c.d. falchi), avrebbe gradatamente posto in atto una strategia centrata sullestensione degli obiettivi da colpire, passando da Bin Laden e Al Qaeda a Saddam Hussein e allIraq. Il fondamentalismo islamico diventava il nuovo nemico pubblico numero uno della nazione.

Trattasi di un atto dovuto – ha affermato nei giorni scorsi il presidente democratico Biden, con palese imbarazzo, ma pari convinzione, argomentando circa la repentina ritirata dei soldati americani da quello stesso paese. Questa volta, però, il consenso non sembra essere altrettanto maggioritario, soprattutto nellarea dellemisfero occidentale. Si ritiene che tempi e modalità avrebbero dovuto essere scelti con maggiore avvedutezza. Ora, nelle diverse cancellerie ci si interroga, non senza una certa inquietudine (visti i precedenti storici) quale sia la reale visione del mondo del neo presidente (dato, peraltro, già in calo di consensi per alcune decisioni in controtendenza rispetto alle attese) e, in particolare, la sua idea di come gestire la situazione in Afghanistan in vista dellavvento del nuovo (vecchio?) corso politico impresso al paese dai vertici talebani.

Nel 2001 si doveva intervenire militarmente sullonda emotiva dellattacco alle Torri Gemelle per catturare Bin Laden e impedire al terrorismo dei fondamentalisti islamici di proliferare indisturbato nel paese che li ospitava. Oggi, lAmerica riporta a casa i suoi ragazzoni in divisa per ragioni di politica interna (promesse elettorali) ed economica, ma forse anche perché il terrorismo non si manifesta più da qualche anno con la virulenza di un tempo ma sotto forma di azioni condotte in maniera del tutto autonoma da minuscoli gruppi, ovvero da singole persone a volte anche parzialmente squilibrate.

Fragili le motivazioni del passato; ancora di più quelle attuali. Ambedue però ampiamente sufficienti per convincere sempre i tradizionali alleati a seguire Washington, senza alcuna forma di critica esplicita, in passato schierandosi al suo fianco sul terreno afgano e, nei giorni scorsi, ritirandosi a comando.

Nelle due situazioni la Casa Bianca ha interpretato a suo modo gli eventi ed ha deciso secondo la propria convenienza, senza curarsi dellopinione altrui (di alleati ed avversari), a conferma dello statusdi superpotenza militare, tecnologica ed economica di cui il Paese ritiene di continuare a godere. A dispetto, anche, di tutti coloro che hanno avvertito in entrambe le circostanze i sintomi di un declino della bandiera a stelle e strisce: prima perché lAmerica aveva mostrato una insospettata vulnerabilità nellattacco islamista alle Torri Gemelle ed oggi per la sua impossibilità (o incapacità) di trasformare lAfghanistan in un paese democratico, accettando addirittura (come raccontano le cronache di questi giorni) che il potere torni nelle mani degli antichi mortali nemici.

In realtà, ritengo che, come non seguì il suo declino allora, molto probabilmente non lo si avrà adesso. LAmerica continuerà a stare saldamente in sella ancora a lungo nellesercitare la leadershipnellOccidente ed i suoi alleati, in primis quelli europei, continueranno ad avvalersene, seppure spesso obtorto collo, per difendersi dalle mire espansionistiche della Cina, unico grande paese in grado di contrastare la strapotenza americana.

Ciononostante gli Stati Uniti, cui lEuropa – è bene non dimenticarlo mai – deve moltissimo, continuano a sbagliare in politica estera, oggi come ieri. La rapida successione degli eventi prodottisi in Afghanistan è abbastanza eloquente. Primo fra tutti il fulmineo tracollo militare di un esercito a lungo addestrato da professionisti delle armi ampiamente collaudati di fronte allincalzare massiccio di bande armate pur sempre irregolari, cui sta facendo seguito la formazione di un governo guidato da Mohammad Hassan Akhund, da tempo presente nella lista nera delle NU con la qualifica di terrorista, e nel quale figura come ministro degli interni Sirajuddin Haqqani ricercato per terrorismo dallFBI, sulla cui testa pende una taglia da cinque milioni di dollari (!). Alla lunga, queste due significative presenze nellesecutivo talebano (come quella di ex-detenuti del campo di concentramento di Guantamano) non potranno non svolgere un ruolo di rilievo nel ridefinire i rapporti con lOccidente. Scarso, in tal senso, il significato della collaborazioneprestata in questi giorni dalla manovalanza talebana per favorire la partenza degli americani in quanto riflette proprio i desiderata dei vertici. Di sicuro inquietante, invece, la decisione diffusa nelle ultime ore da fonti talebane, riprese da alcuni media internazionali, di presentare il nuovo governo proprio nel ventesimo anniversario dellattacco delle Torri Gemelle: un modo di contrapporre contemporaneamente al cordoglio di un intero paese la gioia di un popolo per la riconquistata indipendenza.

In definitiva, il bilancio di un intervento militare protrattosi per venti anni, costato ai contribuenti americani 2.500 miliardi di dollari nonché la perdita di oltre 2.500 soldati, non potrebbe essere più fallimentare. Ma le conseguenze di questo (pessimamente programmato e malamente portato a termine) ritiro unilaterale rischiano di esserlo ancora di più proprio per il ricrearsi di una situazione potenzialmente simile a quella esistente venti anni orsono. Infatti, quali margini di pacifica coesistenza potranno esistere fra interlocutori che non hanno fino ad oggi cessato di combattersi aspramente? Come si potrà impedire a quel paese di tornare ad essere un sicuro e confortevole rifugio per migliaia di terroristi desiderosi di ripetere le gesta dei loro predecessori, martiri per la causa? E se lAmerica non è riuscita a prevalere, seppur presente per tanti anni militarmente sul territorio afgano, come potrà farlo attorno ad un tavolo negoziale, reso peraltro più traballante dalla costante risorgente minaccia di possibili nuovi attacchi sul territorio nazionale portati da terroristi emuli degli attuali vittoriosi combattenti talebani? Quale sarà la linea politica prevalente del governo talebano, obbligato a barcamenarsi fra le lusinghe economiche cinesi, la pressione russa alla frontiera, la cooperazione con la Turchia e i rigurgiti interni dellIsis e Al Qaeda non a tutti invisi? Last, but not least, potrà essere ancora ipotizzabile un nuovo intervento americano in Afghanistan in caso di una emergenza internazionale provocata da una possibile grave crisi politica in quellarea, anche in considerazione del crescente peso specifico, con conseguente accresciuto potere di interdizione, della Cina e della Russia?

Insomma, Biden sarà comunque chiamato a risolvere una equazione dalle molteplici incognite

La speranza (per il momento, su ben poco fondata) è che la genia degli Osama Bin Laden possa presto esaurirsi e la nuova generazione di leader integralisti sia più portata a dialogare piuttosto che ad educare schiere di giovani fanatici pronti a tutto, anche al supremo sacrificio, pur di annientare gli infedeli. In altri termini, ancora una volta, la strapotenza americana non sarà sufficiente a superare lostacolo islamista senza un coefficiente superiore di ragionevolezza presente nella controparte.

È auspicabile, per il bene di tutti, che questa volta lAmministrazione ne sia consapevole.

 

P.S. La foto che accompagna questo articolo proviene dall’archivio personale dell’autore, ex diplomatico, all’epoca dei fatti Console Generale a New York.