Una volta erano tra le leggi più longeve. In molti casi, addirittura, costituivano parte integrante della legge fondamentale, cioè la Costituzione, e godevano di un regime giuridico resistente ai cambiamenti ordinari delle leggi. In poche parole -le regole elettorali che determinano come si trasformano i voti in seggi parlamentari- costituivano normative stabili il cui cambiamento segnava la fine di un’epoca. Come avvenne nel nostro Paese nel 1919 quando si passò dal maggioritario al proporzionale, per assorbire pienamente nel sistema politico liberal-democratico i socialisti ed i popolari che con il nuovo secolo erano diventate le forze politiche emergenti. E come si sarebbe verificato, dopo il Fascismo, con l’avvento del sistema democratico-repubblicano, quando si varò una legge elettorale che durò fino al 1993 e fu improntata anch’essa al criterio proporzionale di distribuzione dei seggi.

A partire dalle ccdd. leggi Mattarella (Mattarellum), invece, questa situazione si è completamente capovolta. E’ iniziato una sorta di balletto dei sistemi di voto che non solo ha portato, oggi, il nostro Paese alla soglia della ennesima legge elettorale in poco più di un venticinquennio ma ha anche piegato i due classici modelli elettorali (proporzionale e maggioritario) alla convivenza forzosa in sistemi misti diversamente dosati attraverso vari marchingegni inventati al solo scopo di favorire nelle successive elezioni i partiti che se ne erano fatti promotori. E così abbiamo avuto in rapida successione il Porcellum, l’Italicum, il Rosatellum, tutti strumenti “fatti su misura” e quindi non per cambiare in senso innovativo il sistema politico ma, al contrario, per conservarlo nei suoi equilibri, difesi con tenace resistenza a favore della posizione di vantaggio di chi li aveva proposti.

Del preoccupante e sempre più incalzante problema dell’astensionismo degli elettori -che, ormai, disertano le urne in modo non congiunturale ma strutturale, permanente, non episodico- e, soprattutto, del gravissimo fenomeno della divisione tra popolo ed élites -che si percepiscono sempre più come entità portatrici di valori ed interessi inconciliabilmente opposti- nessuna adeguata percezione. Come se qui non fosse in gioco direttamente la democrazia, che con l’affermarsi della retorica populista è colpita con un taglio netto nei suoi legami di intermediazione e quindi delegittimata in maniera decisiva nei partiti politici e nelle istituzioni rappresentative. Anzi, bisogna segnalare una sempre più esclusiva accentuazione del dibattito in ordine alla ‘modellistica’ dei criteri elettorali proposti tra: proporzionali puri o variamente corretti con clausola di sbarramento più o meno bassa; maggioritari con o senza scorporo; uninominali ad uno o doppio turno alla francese o all’australiana; sistemi vari tra modello spagnolo, svedese, greco e, naturalmente, inglese e tedesco. Con la connessa conseguenza di una sempre più distratta attenzione alle radici di questi meccanismi elettorali che, come è noto, stanno alla base della funzionalità e democraticità del sistema istituzionale e quindi non possono essere configurati né di per sé né per il tornaconto particolare di questo o quel partito. Men che meno dell’uno o dell’altro leaders politico, addirittura, dello stesso schieramento o partito come pretenderebbero all’interno del PD Franceschini, che propugna un proporzionale con sbarramento, ed il segretario, Zingaretti, che sfida gli alleati ed apre alla Lega sul maggioritario. Lega che, a sua volta, con Salvini, per un verso, promuove il referendum per abolire la quota proporzionale e trasformare il Rosatellum in un sistema completamente maggioritario e, per un altro verso, si dichiara pronta a chiudere un patto con Sinistra e M5S sul proporzionale.

Dunque, non è sulla base di calcoli e tornaconti di partito o di schieramento che si deve guardare alla riforma elettorale se, peraltro, non si vuole ripetere ancora una volta, dopo due sentenze di incostituzionalità seppure parziale, l’esperienza del Porcellum e dell’Italicum. Tutt’altra deve essere, invece, la strada da imboccare. E precisamente quella che, come meta, ha la migliore funzionalità e democraticità del sistema istituzionale. Che, è necessario tenere presente, non dipende dalla sola e adeguata strutturazione politica del parlamento ma dalla organizzazione e dalla efficienza ed efficacia dell’intero apparato di governance della Repubblica. Circostanza questa che quindi implica l’abbandono dell’idea di fondare la riforma elettorale tenendo in conto la configurazione del solo parlamento e l’assunzione di un diverso criterio basato sul ruolo e le funzioni svolte dagli organi che costituiscono il complessivo sistema di governo del Paese. Senza la cui profonda trasformazione, in direzione del superamento del cd. “stato legislativo” fondato sulla supremazia della legge e conseguentemente del parlamento, difficilmente potrebbe garantire una nuova governance efficiente, efficace, ‘al passo’ con la velocizzazione del tempo e quindi in grado di dare risposte adeguate per uscire dalla paralisi che caratterizza l’attuale sistema democratico ormai incapace di continuare a soddisfare i bisogni primari dei cittadini.

Non è certo questa la sede per affrontare il tema di quella che sarebbe una nuova forma di democrazia se si decidesse di riformare la governance del Paese non facendola dipendere più dalla sola legge del parlamento ma la si collegasse anche agli atti del governo, assunti con autonome decisioni, e si instaurasse così un sistema non più monista ma duale di governance, con linee di legittimazione popolare separate per parlamento e governo. Una cosa mi sembra però possibile stabilire fin da ora con certezza: che, se si procedesse tenendo conto di questa inoppugnabile prospettiva, il problema elettorale non potrebbe consistere più nel solo criterio con il quale formare la camera rappresentativa ma dovrebbe riguardare anche il modo di legittimare direttamente il premier. Il che significa che, poiché è un organo monocratico e non consente una rappresentazione pluralistica, quest’ultimo dovrebbe essere eletto con il sistema maggioritario. Mentre, essendo il parlamento un organo collegiale, il suo sistema di elezione non dovrebbe essere mai diverso da quello proporzionale.

Ma c’è di più. In quanto le ragioni di tali scelte non sarebbero fondate esclusivamente su questi argomenti di carattere tecnico-giuridico. Vi sono altre profonde motivazioni, di natura politico-istituzionale, che non possono essere trascurate e che spingono univocamente in direzione di una riforma elettorale consistente nell’adozione di due differenti sistemi. Mi riferisco, innanzi tutto, alla necessità in questa fase di cambiamento epocale di rilanciare la democrazia della responsabilità e, poi, all’esigenza di costruire tra governo e parlamento un nuovo circuito comunicativo che consenta al popolo di controllare attraverso il parlamento l’attività amministrativa del governo. Il ‘combinato disposto’ di queste modalità istituzionali è infatti, a mio giudizio, in grado di dare un decisivo contributo al superamento sia della grave situazione di astensionismo che oggi caratterizza qualsiasi sistema elettorale sia della condizione di incomunicabilità che si è determinata tra élites e popolo. Istaurando così una forma di democrazia in cui il responsabile del governo è costantemente controllato nella sua attività di indirizzo politico dai rappresentanti del popolo in parlamento, permanentemente collegati con le forze politiche che hanno determinato l’elezione di entrambi gli organi della governance.

Inoltre, da tutto quanto ora detto, è facile rilevare come si delineino due funzioni politiche assolutamente inedite i cui connotati influenzano anche i poteri nei quali si sostanziano, determinandone un sistema di relazioni che non sono più quelle che intercorrono tra esecutivo e legislativo, tali perché legati da un rapporto fiduciario, ma quelle funzionali che intercorrono tra un organo che governa ed un organo che controlla. Circostanza che fa emergere chiaramente come, rispetto all’attuale modello costituzionale, non si tratta di modificarne la “forma di governo” parlamentare in senso presidenziale ma di creare un sistema organizzativo non più improntato alla logica monista dell’esercizio della medesima funzione da parte di entrambi i poteri ma di prendere atto del dualismo delle funzioni che governo, da un lato, e parlamento, dall’altro, esercitano. Realizzando così un circuito democratico finalmente virtuoso in cui il principio di responsabilità si collega con quello di rappresentanza e nella loro interazione garantiscono entrambi la piena partecipazione del popolo alla vita istituzionale.

In altri termini, strutturando un sistema di democrazia comunitaria (o di “civismo”, per ripetere il termine di autoqualificazione usato da qualche recentissima esperienza politica) della quale già qualche elemento di apprezzamento si poteva cogliere in quegli ordinamenti locali e regionali in cui non è solo l’organo collegiale del consiglio ad essere eletto direttamente dal corpo elettorale ma anche quello monocratico del sindaco o del presidente della regione che così riallacciano con il popolo un vero rapporto di condivisione dell’indirizzo politico-istituzionale di volta in volta stabilito con il pronunciamento elettorale.

Organizzazione, quest’ultima, che peraltro, da un lato, costituirebbe il fondamento di una vera riforma dell’attuale democrazia capace di assicurare la sopravvivenza degli stessi partiti politici legati attraverso il parlamento al principio della rappresentanza pluralistica ed attraverso il governo a quello della responsabilità comunitaria e, dall’altro, implicherebbe, come già detto, la diversificazione dei sistemi per eleggere il premier ed il parlamento.
Ora, se tutto questo è condivisibile e viene assunto come modello istituzionale da perseguire seppure con i tempi e la sequenzialità imposte dall’agenda politica che certamente in questa fase non prevede (e non consentirebbe) alcuna modifica costituzionale della ‘forma di governo’ e quindi di elezione diretta del premier, la conseguenza che ne deriva è che la riforma della legge per l’elezione del parlamento -pur nella persistenza di un bicameralismo perfetto che comunque ne condiziona inevitabilmente gli effetti benefici- non potrebbe che essere improntata ad un rigido proporzionalismo. Magari attenuato da una soglia di sbarramento. Ma quanto più contenuta possibile, giusto per evitare la polverizzazione del sistema politico. Non certo per introdurre un surrettizio elemento di maggioritario che nel mosaico in cui si verrebbe ad inserire servirebbe soltanto a distorcere la volontà manifestata dal popolo e quindi ad indebolire la democrazia. Come sarebbe pure una mortificazione della partecipazione e della democrazia se al calcolo proporzionale si accoppiasse poi il voto di lista bloccato.

Insomma ed in conclusione, se il sistema elettorale è connesso al sistema istituzionale e si fa dipendere dalla funzionalità nei confronti di quest’ultimo, allora lo spazio per discussioni, dibattiti, confronti e quant’altro in ordine alla legge elettorale per il parlamento si restringerà ineluttabilmente ed i ‘balletti’ argomentativi a cui abbiamo assistito finora finiranno di alimentare affermazioni strumentali come quelle che sostengono che “il processo politico italiano va verso una netta bipolarizzazione” e “richiede (quindi) un sistema elettorale maggioritario”. E si capirà, inoltre, una volta per tutte, che l’unica strada da seguire è, invece, quella di una legge proporzionale. Meglio se coniugata con collegi uninominali, così come già avveniva per il Senato della Repubblica e per l’elezione dei Consigli delle vecchie Province.