Il dibattito sul “partito dei cattolici” ha anche qualcosa di surreale.
Forse per qualche uscita imprecisa o forse per altri motivi, si sta discutendo spesso attorno ad un presupposto che in realtà non c’è. Non esiste infatti nessun progetto che punti alla nascita di un “partito dei cattolici”.
Non ha senso dunque evocare questa inesistente suggestione (Follini sul Domani non lo fa, molti altri si) per irridere o censurare i tentativi e i percorsi orientati invece a rigenerare una “cultura politica” che non può essere confinata nelle citazioni (chi non cita ormai Sturzo, Degasperi o Moro?) o imbalsamata in polverosi Pantheon, ma deve essere riconiugata con la sostanza viva della vita pubblica del Paese e delle sue drammatiche sfide.

I cattolici (in quanto comunità di fedeli) votano (o non votano) ormai da decenni come meglio credono. Del resto, risale ai primi anni del secolo secolo scorso la famosa frase di don Luigi Sturzo: “la religione unisce, la politica divide”. Non si scopre certo oggi l’acqua calda.
La questione non è dunque riorganizzare “i cattolici” nella politica – men che meno come una falange unita – ma ricostruire una proposta politica capace di dare speranza ad un Paese in declino e alimentazione nuova ad una democrazia sempre meno partecipata e comunitaria.

Nell’ambito di questa necessità – resa ancora più impellente dagli effetti sociali, psicologici ed economici di una Pandemia destinata a segnare un drammatico passaggio di ciclo storico – chi si richiama alla cultura politica del Popolarismo di ispirazione cristiana (non, dunque, “i cattolici”) ha un dovere nuovo di pensiero, parola, testimonianza e iniziativa.
Ed è un dovere “collettivo”, non solo personale, che comporta tra le altre cose la ricerca di un “ubi consistam”.

Questo significa pensare sic et simpliciter ad un “partito” di modello tradizionale?
Non credo. Per la semplice ragione che in questo nostro tempo strano (ma è “il tempo che ci è dato di vivere”….) ciò che in passato si definiva “partito” esige una sorta di “sdoppiamento”.
Un tempo, un “partito” era, assieme, “identità e proposta”. Oggi questo è reso difficile se non impossibile dai mutamenti radicali della società e dalla complessità della dinamica pubblica e delle sue relazioni con i cittadini.
L’avvento dei “partiti personali” e dei “partiti digitali” altro non è che la risposta sbagliata e sbrigativa a questa difficoltà.

Il Partito Democratico era nato per tentare una diversa strada: quella di un contenitore politico che aveva l’ambizione di rappresentare alcune identità culturali del novecento, unite in un unico progetto politico. In parte ci è riuscito dal punto di vista del coinvolgimento iniziale dei diversi elettorati e delle diverse classi dirigenti appartenenti a molte anime della sinistra storica e della Democrazia Cristiana. Ma oggi – con tutto il rispetto e l’amicizia che si deve a questa esperienza comunque importante per il Paese – bisogna riconoscere che non ci è invece riuscito né dal punto di vista della valorizzazione di queste culture (che si sono mescolate ma anche spente), né da quello di una nuova loro sintesi post novecentesca.

Contino a pensare che avesse ragione Beniamino Andreatta, quando immaginava una sorta di CDU italiana, frutto dell’incontro tra la tradizione popolare e quella liberal-democratica.
La storia andò diversamente, come sappiamo. La Margherita – che di tale incontro sarebbe poi stato frutto ed assieme potenziale germoglio – non credette a se stessa e decise di sciogliersi nel PD.
Così, ciò che era nato come una alleanza tra diversi (l’Ulivo) finí per diventare “partito” unico.

Ed eccoci qui, ancora, a prendere atto che questo schema fatica non poco a rappresentare la maggioranza degli italiani. E a considerare, da un lato, la non autosufficienza del PD (nonostante la mitizzazione reiterata della sua vocazione maggioritaria) e, dall’altro, la “coriandolizzazione” (rubo il termine da Giorgio Merlo) delle presenze politiche che stanno tra il PD ed i populismi del M5S e della destra.
Nel frattempo, la crisi della democrazia rappresentativa galoppa e le conseguenze del Covid la accelerano. Cresce la domanda dell’uomo forte al comando, speculare alla individualizzazione estrema dei bisogni sociali di fronte alla crisi dei modelli di welfare e di sviluppo. In Italia e nel mondo, come magistralmente rileva Papa Francesco nella nuova enciclica “Fratelli tutti”, rischia di scomparire il principio della “Comunità” e, di conseguenza, quello della “Politica”.

Se questo scenario ha almeno qualche elemento di verità – come ritengo – occorre lavorare su due dimensioni correlate ma distinte. Ecco perché parlavo prima di “sdoppiamento” del concetto tradizionale di “partito”.
Una prima dimensione è quella delle “culture politiche” e della loro identità.
Servono organizzazioni che le rigenerino in un rapporto nuovo e fecondo con la comunità (le persone e le formazioni sociali, civili, territoriali ed economiche che la compongono).
Non si può ambire a “rappresentare” una comunità se prima non si concorre a ricomporla.

Chi si occupa oggi di ricostruire una rete di comunità e di territorio? Chi “educa” (uso volutamente questo termine desueto) alla “democrazia comunitaria” i cittadini? Chi li accompagna nella loro solitudine difronte ai radicali cambiamenti del nostro tempo? Chi condivide con essi paure e speranze? Chi si occupa di “formare” una nuova classe dirigente? Chi si impegna nella elaborazione partecipata di nuove idee e di nuove e condivise chiavi di lettura a fronte del crollo delle vecchie certezze della seconda metà del novecento?

Questo dovrebbe essere il compito delle culture politiche organizzate nella comunità.
Un tempo questo ruolo era svolto dai “partiti”. Oggi non più.
Occorre che i “popolari di ispirazione cristiana” ricostruiscano innanzitutto un loro ruolo su questa prima dimensione. E, su questo piano, occorre che agiscano con tutta la potenzialità – anche profetica, se ci riescono – della loro ispirazione e dei loro valori costitutivi. Serve una presenza capillare, di base, pre-partitica ma altamente politica, nel senso di una vocazione a ricostruire la nuova trama di comunità. La quale è, appunto, il presupposto della vera rappresentanza politica.
Questa è la prima dimensione che personalmente vedo fondamentale per quanti intendono, come gli amici di Insieme, dare gambe politiche non effimere al Manifesto proposto da Stefano Zamagni.

Così facendo, eserciterebbero meritoriamente la prima delle due funzioni che convivevano in passato nei “partiti” di massa del novecento. Del resto, si può essere “popolari” senza una riconciliazione – di presenza e di simbiosi – con il popolo, con le sue paure e contraddizioni e col suo difficile percorso nella storia che cambia paradigmi?
Quanto alla seconda funzione (quella della organizzazione del consenso e della rappresentanza nelle istituzioni), penso personalmente che la crisi profonda della nostra società – che ci accompagnerà per molti anni – richieda schemi più robusti e maturi della semplice riproposizione di tante bandierine identitarie. Servono contenitori politico-elettorali forti, autorevoli, percepibili dai cittadini come stabili e credibili difronte alle sfide del governo di processi che stanno cambiando i connotati della nostra società e della nostra economia.

Torno a quanto auspicava Beniamino Andreatta ai suoi tempi. Serve uno strumento politico-elettorale che abbia l’ambizione di essere un potenziale “bari-centro” per il Paese e per il suo cammino di necessaria trasformazione in questa svolta epocale. Capacità di trasformazione che è ben di più del classico riformismo, come sostengono Zamagni e con lui molti osservatori dei fenomeni demografici, tecnologici, economici, antropologici ed ecologici. E come suggerisce lo stesso Francesco, quando esorta ad un “nuovo umanesimo”.

Tra il “partitino” e il “partitone” di cui al recente articolo di Marco Follini, la terza via si può forse ricercare su questa prospettiva. Culture politiche che si riorganizzano sul piano autenticamente identitario nella comunità e “nuovi partiti plurali” che le rappresentano – rispettandole e non archiviandole – in aree politiche sufficientemente omogenee.
Una di queste – che manca in Italia da qualche decennio – è quella delle culture popolari di ispirazione cristiana e liberal-democratica. Se abbandoniamo la nostalgia e accantoniamo la presunzione che ogni tassello sia il mosaico, forse riusciamo a fare qualcosa di buono ed utile per il Paese. I tasselli incominciano ad esserci: il variegato mondo popolare, da Insieme ad altre realtà come Rete Bianca e Demos; Azione; Base Italia di Marco Bentivogli; la rete dei partiti territoriali e delle liste civiche (parlo di quelle vere e non di quelle “di copertura”); movimenti e associazioni nate attorno alla nuova sensibilità ecologista “alla tedesca”.

Il mosaico ancora manca. E non è solo questione di leadership, ma principalmente di lettura politica e di coraggio culturale. “Le” leadership ne conseguiranno sul campo, posto che – nonostante la mitologia prevalente – non è più il tempo delle “discese” da un “alto” che, del resto, si stenta ad intravvedere come tale, sia nelle Istituzioni, sia nelle nomenclature dei vari poteri costituiti, quasi tutte a corto di idee e di carisma.