In questa fase di estrema criticità mondiale dovuta alla diffusione del coronavirus COVID-19 nella forma della pandemia, tutte le attenzioni sono concentrate sulle misure di prevenzione del contagio, sui provvedimenti per isolare le aree a rischio, sulle cure delle persone affette dalle patologie provocate: questo vuol dire organizzare il triage, attrezzare gli ospedali, assumere tutte le iniziative mirate ad evitare assembramenti di persone, in qualsiasi contesto e forma si realizzino, al fine di impedire che l’espandersi del virus – con un incedere esponenziale e stili di vita che diventano fattori di moltiplicazione – produca effetti catastrofici: per questo, colti di sorpresa da informazioni tardive provenienti dal Paese di origine del virus isolato in laboratorio, i Governi stanno cercando di ottimizzare gli strumenti per affrontare l’espandersi del male attraverso i rispettivi sistemi sanitari nazionali.

L’assenza di un’azione condivisa a livello europeo e mondiale viene compensata dagli indirizzi dell’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) : ci sono tuttavia tempi tecnici anche per la scienza, la risposta non è mai sintomatica, le epidemie si diffondono e si allargano anche a motivo dei dubbi che la comunità scientifica internazionale esprime sotto forma di valutazioni d’impatto che finiscono per disorientare la pubblica opinione nell’organizzare in modo sintomatico e consequenziale i propri stili di vita.
Ogni dubbio, tentennamento, ogni informazione errata, confusa o tardiva si rivela il miglior complice del contagio: ci si attendono provvedimenti risolutivi e draconiani ma non sì è disposti a rinunciare ai compiacimenti e alle frivolezze di certe abitudini: lo stadio, la pizza, la gita, la sciata, la discoteca, l’happy hour, l’affollamento dei centri commerciali.
In una democrazia anche questi aspetti finora innocui , abitudinari e banali assumono il significato di una leggerezza di valutazione ( le cose succedono sempre agli altri) e di una ottusa opposizione alle indicazioni profilattiche che vengono dalla scienza e dagli esperti.
Sfidiamo ogni giorno il contagio e costringiamo poi il personale sanitario a fare miracoli per salvarci.

Una delle caratteristiche del nostro tempo è vivere con approssimazione e leggerezza le vicende della vita, forse per bypassarne la complessità: certi agi e certe libertà personali assumono le sembianze di consuetudini sicure e irrinunciabili.
Per questo invocando l’intervento dello Stato, delle Regioni, delle autorità sanitarie compiamo un atto di fiducia non sempre compensata dalla disponibilità personale a rivedere i nostri stili di vita, come se salute, sicurezza, protezione, fossero involucri precostituiti pronti a tutelarci in ogni difficoltà.
Un contagio con tendenza pandemica ha due caratteristiche letali: l’imprevedibilità e la rapidità di diffusione, mentre la sua eziopatogenesi incerta richiede studi di laboratorio lunghi e complessi al pari della ricerca del vaccino indispensabile per annullarne la portata di morbilità e di mortalità.

In un mondo globalizzato e interconnesso sotto molteplici profili è pressochè impossibile costringere tutti a comportamenti adeguati e a contromisure efficaci. Leggo sui social che taluni ritengono un segno di libertà sottrarsi alle prescrizioni della scienza e delle autorità: costoro mi ricordano i negazionisti dell’Olocausto o più banalmente i fautori del ‘terrapiattismo’, individui che danno corpo a movimenti di opinione che negano ogni evidenza della cultura, della storia e della realtà ad eccezione delle proprie ingiustificabili congetture.

Ma in questa fase convulsa e di panico collettivo occorre riflettere anche sulle scelte non sempre ponderate della politica e dei decisori ad ogni livello di responsabilità: in questa discrasia tra lungimiranza, competenza, avvedutezza, senso della misura da un lato e smania di protagonismo emerge come un convitato di pietra la differenza che corre tra la misura delle responsabilità assunte, la competenza necessaria a saperle gestire e la pochezza degli attori che si immedesimano nel compito di prendere decisioni.
Mi vengono i mente certi personaggi teatrali di Samuel Beckett che gesticolano imprigionati sotto terra a mezzo busto se non a volte a testa in giù, ai disquisitori del nulla che si esprimono con aforismi laconici privi di senso nell’attesa che arrivi Godot. Affabulatori di mestiere che si esprimono per luoghi comuni.

E’ trascorso un anno: qualcuno ricorda il Memorandum Italia-Cina del marzo 2019? Nobili intenti di cooperazione internazionale, di scambi commerciali e culturali suffragati dalla fretta di anticipare un accordo avversato ferocemente dal resto dell’Europa piuttosto che da una conoscenza del soggetto politico interlocutore.
Questo si ravvisa In un contesto globalizzato dove si assiste al venir meno del collante politico e solidaristico della Nato (un attento osservatore come Federico Rampini ha considerato una sorta di funerale il 70° anniversario fondativo dell’alleanza), alla lenta sovrapposizione delle logiche commerciali della geoeconomia su quelle della geopolitica in una fase storica in cui l’Europa è più prossima al “nulla istituzionale” che al grande sogno di De Gasperi, Spinelli, Schuman, Monnet, Spaak e Adenauer.

Rifletto sul punto numero 27 di quell’accordo: quello che prevede che i bacini portuali di Trieste/Monfalcone e Genova porto antico – SECH e PSA Genova Pra’ diventino i terminali europei dei traffici commerciali marittimi della cosiddetta “via della Seta”.

Rifletto e mi immagino che cosa potrebbe accadere in questo frangente se quell’accordo non fosse una prospettiva espansiva ma funzionasse a pieno regime: probabilmente si monetizzerebbero i previsti “2,5 miliardi di euro con un potenziale di 20 miliardi” ma si creerebbe un indotto gigantesco di merci, uomini e strutture che potrebbe avere incidenze non irrilevanti rispetto ad un possibile stravolgimento ambientale dei due contesti.
Con vantaggi probabilmente per l’intera Europa ma l’impatto di sostenibilità ricadrebbe in ingresso sul nostro Paese, segnatamente in quei due individuati “terminali” portuali.
Questa riflessione apparentemente digressiva mi induce a pensare ad un possibile effetto moltiplicatore rispetto a nuove possibili epidemie: poiché su quella attuale né la politica ne’ la scienza sono ancora in grado di inquadrarne l’origine.

La globalizzazione ha potenzialità espansive ma finora ha disvelato incidenze negative ingovernabili che tradiscono la cultura assai più rassicurante delle tradizioni, del controllo e del genius loci.
Il giorno 28 aprile dello scorso anno tra il Ministero della Salute della Repubblica Italiana
e l’Amministrazione Generale delle dogane della Repubblica Popolare cinese
era stato siglato un Accordo bilaterale a margine del citato Memorandum del mese precedente che prevedeva alcune Aree di collaborazione che la diffusione del Coronavirus ha reso drammaticamente attuali: il rafforzamento della prevenzione e del controllo in frontiera delle principali malattie infettive, il rafforzamento delle misure quarantenarie e dell’ispezione dei mezzi di trasporto internazionali, in entrata e in uscita dai territori italiano e cinese, il miglioramento dell’efficacia delle misure di disinfezione, disinsettazione e derattizzazione, la prevenzione della trasmissione transfrontaliera di malattie infettive.
Alla luce di quanto sta accadendo in questi mesi, viene da pensare in che misura questi accordi siano stati rispettati e attualizzati: forse bisogna uscire dalla logica degli impegni conclamati nella loro ridondante enfasi previsionale e cominciare a riflettere sul fatto che nel consesso politico mondiale Italia ed Europa contano e valgono meno dei posti loro riservati alle assisi internazionali.

Che- oltre i nazionalismi e la difesa delle frontiere, argomenti usati da chi vuole cavalcare la logica delle aperture indiscriminate ma poco ragionate – dobbiamo fare ammenda delle nostre intrinseche fragilità e prima di compiacerci del fatto che gli occhi del mondo siano puntati su di noi, dovremmo forse cominciare a capirne le recondite ragioni.