Patrizia Prestipino: “La qualità del sistema scolastico si misura soprattutto nel modo in cui si prende cura degli ultimi”.

Professoressa, è stata presidente del Municipio Roma XII (Ad oggi rinominato Municipio Roma IX) nel 2007 ha partecipato alla fondazione del Partito Democratico diventandone membro dell'Assemblea Nazionale. È stata assessore allo sport, turismo e giovani della Provincia di Roma con la giunta di Nicola Zingaretti. Alle elezioni politiche del 2018 viene eletta alla Camera dei Deputati nel collegio uninominale di Roma-Ardeatino.

On.le Prestipino, il suo background professionale deriva dalla Sua esperienza di docente nelle Scuole Superiori: possiamo considerarlo un valore aggiunto alle Sue motivazioni e scelte politiche, nel contesto della Commissione Istruzione della Camera? Non sempre la politica può avvalersi di una pregressa competenza specifica da parte dei suoi parlamentari. In tema di scuola e istruzione trovo che sia un atout fondamentale.

Sicuramente l’esperienza di docente aiuta a intercettare quali sono le reali esigenze della scuola, sia quelle degli studenti che personalmente amo tantissimo e che sono il motivo che mi hanno tenuta attaccata a questo mondo per tanti anni, sia quelle dell’intera categoria scolastica che comprende docenti, dirigenti scolastici, personale scolastico. La politica deve osservare dall’interno la scuola per meglio comprenderne le problematiche. Ecco perché esser stata docente è senza dubbio un valore aggiunto nella VII commissione dove porto sempre il mio contributo personale dato da un’esperienza di 25 anni di insegnamento.

Dal Suo Osservatorio Istituzionale come valuta il sistema scolastico italiano? In un’ottica di pedagogia comparativa la nostra Scuola può vantare una tradizione consolidata nella qualità dell’insegnamento e nei programmi: tuttavia da alcuni decenni si parla di scuola in crisi, non al passo con i tempi, carente in dotazioni strumentali e negli organici, non adeguata alle scelte di alcuni Paesi che hanno fatto investimenti massicci nella ricerca educativa, nell’aggiornamento del personale, nell’adeguamento strutturale non esclusa la via del rinnovamento attraverso l’uso delle nuove tecnologie. Quali sono i punti di forza e quelli deboli del sistema formativo italiano? Ci sono contraddittorie valutazioni da parte degli organismi internazionali, in primis l’OCSE.

Quando penso agli investimenti sulla scuola mi viene sempre in mente la famosa frase di blairiana memoria: “education, education, education!”. Per dirla in inglese: school first perché la scuola è il presente ma deve essere soprattutto il futuro, la formazione delle future classi dirigenti e dei futuri cittadini. È fondamentale investire sulla scuola e forse non si è ancora fatto abbastanza. La scuola italiana ha sicuramente un livello di didattica molto alto, soprattutto nei programmi umanistici e classici, e una classe docente molto preparata che però risente di problemi logistici. Migliaia di edifici soffrono di carenze strutturali, non sono tutti in sicurezza, le palestre scolastiche sono in uno stato poco dignitoso e gli spazi non sono sempre adeguati ai nostri studenti. Però si è fatto un grosso investimento in materia di edilizia dopo l’epidemia, i comuni e le province sono intervenuti snellendo la burocrazia e permettendo la messa in sicurezza di molti edifici. Tuttavia, non va dimenticato che L’OCSE ci giudica a metà classifica sulla preparazione dei nostri docenti nelle materie scientifiche e su questo bisogna lavorare così come sulla povertà educativa, sulle diseguaglianze che la dad ha sicuramente fatto emergere nei mesi di lockdown e soprattutto sulla formazione dei docenti. Ma su questo i nuovi concorsi richiederanno standard ben precisi per i futuri docenti e quelli già di ruolo saranno costretti a corsi di formazione e di aggiornamento perché sull’innovazione digitale e sulle tecniche innovative la scuola ha bisogno di fare un salto in avanti. 

Da alcuni decenni – per una spinta proveniente dalla base e legittimata da provvedimenti normativi, a cominciare dalla legge 59/1997 fino al DPR 275/1999 – è stata introdotta la cd. “autonomia scolastica”. Prima di questa sostanzialmente i riferimenti normativi fondativi erano i decreti delegati del 1974 e la legge 517/1977. Quali passi in avanti si sono compiuti e quali problemi restano aperti?

Diciamo che l’autonomia scolastica ha fatto passi da gigante rispetto all’anno duemila, anno in cui è entrata in vigore. Sicuramente ha rafforzato l’indipendenza dei singoli istituti, la gestione delle materie curricolari ed extracurricolari ma ha messo anche in evidenza tanti problemi. Ad esempio, non tutte le scuole, in base all’autonomia, hanno raggiungo gli obiettivi scientifici, sociali, occupazionali che si erano preposti. Su questo bisogna ancora lavorare molto.

Non sempre l’autonomia scolastica produce un miglioramento della qualità delle condizioni in cui operano i docenti e i dirigenti scolastici: gestire alcune scelte sul piano organizzativo, didattico, metodologico  in modo autonomo implica un affinamento di competenze che sono richieste dalla necessità di adeguare le prestazioni e i risultati alle esigenze dell’utenza e del territorio. Inoltre si assiste ad un fenomeno che la sociologia ha definito “l’autogenesi degli uffici”: decentrando i livelli decisionali si produce un surplus di norme e di burocrazia “dal basso”, al punto che alcuni insegnanti rimpiangono la scuola governata da indicazioni provenienti dal centro dell’apparato amministrativo. Ci sono Istituti dove vengono emanate fino a 4/5 circolari al giorno. Si assiste inoltre ad una proliferazione di riunioni e di impegni a latere, che sarebbero un corollario della principale funzione del docente – l’insegnamento- per enfatizzare le fasi propedeutiche e preparatorie a quelle attuative della didattica in classe.
Giungono alla Commissione Istruzione e al Ministero P.I. quesiti segnali distonici? La scuola sta diventando – come direbbe Bernhard – il luogo in cui “si passa più tempo a preparare (attraverso mille adempimenti aggiuntivi) che a fare”?Programmare il piano didattico non implica anche un percorso di semplificazione delle procedure?

Questo è il doppio volto dell’autonomia scolastica. Aumenta il peso delle scartoffie sul singolo insegnante che dovrebbe invece essere un educatore, un formatore, un dispensatore di cultura per i nostri studenti, soprattutto nell’ambito della lezione frontale. L’insegnante, quindi, diventa un burocrate di fatto per le tante formalità a cui deve adempiere. D’altro canto, l’autonomia scolastica è sempre stata molto allettante perché viene incontro ai desideri degli alunni di svolgere attività alternative sia curricolari sia extracurricolari più vicine ai loro interessi. Non mi riferisco solo alle lingue straniere ma penso all’educazione civica, allo sport, al diritto economico. Penso alle famiglie che tramite l’autonomia riescono ad avere una scuola più vicina alle proprie abitudini e più omogena alle caratteristiche sociali del territorio. Penso ai docenti che possono dare vita a una metodologia di insegnamento in ambiti diversi con materie diverse e ai dirigenti scolastici che hanno potuto avere un’autonomia gestionale e una libera iniziativa pedagogica molto simile a quella dei dirigenti dei dipartimenti universitari. Tutto questo è bello e affascinante, però l’autonomia porta con sé anche un bagaglio di responsabilità molto forti che possono anche sfociare nel penale. Un esempio è la responsabilità che i presidi hanno oggi in tempo di pandemia in caso di contagio acclarato sul luogo di lavoro. Ripeto, tanti begli aspetti ma anche tante responsabilità sulle spalle del dirigente scolastico che viene caricato di troppe mansioni.

Specialmente dopo la legge 517/1977 il tema del diritto allo studio è diventato centrale: uguaglianza delle opportunità di partenza e di riuscita, didattica differenziata, insegnamento individualizzato, inserimento, integrazione ed inclusione dei soggetti fragili e portatori di disabilità. Eppure il tema del “sostegno al rischio educativo e al disagio scolastico” e – soprattutto il tema delle azioni compensative e di supporto e sostegno alle disabilità sembra restare una “grande incompiuta”. Qual è la Sua valutazione al riguardo?

La qualità del sistema scolastico si misura soprattutto nel modo in cui si prende cura degli ultimi, di tutti coloro che vivono in condizioni di disagio. La scuola, a maggior ragione in questi contesti, deve essere presente e fare la differenza perché rappresenta sia le istituzioni sia la possibilità di avere un futuro diverso. Dispersione scolastica, carenza di servizi, situazioni di degrado sono questioni di cui mi occupo da sempre. La dad non è uguale per tutti, mi viene in mente un dato pubblicato nel report dell’ISTAT sull’inclusione scolastica degli alunni con disabilità: il 23% degli studenti disabili tra aprile e giugno non ha potuto partecipare alle lezioni online. Sono dati drammatici che servono ad evidenziare come questa pandemia abbia contribuito ad accentuare un divario sociale già preesistente. Eppure, inclusione deve essere la parola chiave del nostro sistema scolastico. Durante la pandemia, la scuola ha cercato di reinventarsi, di raggiungere tutti con dispositivi informatici dati in comodato e con fondi appositamente previsti e incrementati con il decreto Ristori ma resta il fatto che quasi un alunno su quattro con disabilità è rimasto escluso e questo rappresenta una sconfitta per tutti noi.

La logica dello spoil system ha introdotto nella dirigenza amministrativa del Ministero, degli Uffici Scol.ci Regionali e delle stesse istituzioni scolastiche (secondo una consuetudine consolidata in tutta la P.A.) persone scelte dalla politica piuttosto che selezionate dal vaglio rigoroso di procedure concorsuali. Nonostante la Costituzione preveda il contrario questa logica di privatizzazione dei servizi pubblici ha cooptato soggetti molto spesso non provvisti di competenze certificate. E’ dunque questa la via per non premiare i capaci e i meritevoli? In Parlamento e nella Commissione di cui fa parte emerge l’eco di queste logiche cooptative che subentrano  al vaglio certificato del requisiti di accesso, ai titoli, all’esperienza? Perché si parla a volte di merito mascherandolo con mere operazioni di nomine discrezionali? Mi riferisco soprattutto alla cd. “alta dirigenza” ovviamente.

Per quanto l’attività della pubblica amministrazione deve essere orientata dai principi del buon andamento e dell’imparzialità, dobbiamo sempre tenere a mente che è la politica a stabilirne gli obiettivi. Incarichi fiduciari sono oggi necessari per ricoprire alcuni ruoli dirigenziali dove la connessione tra politica e p.a. è stretta e l’una è funzionale all’altra, a maggior ragione con la crescita di enti, aziende e organismi controllati o partecipati. Certo, lo spoil system deve valutare anche merito ed efficienza, rispettare la trasparenza nel processo di nomina e non deve costituire un rimedio per dare una poltrona all’amico di turno.

Il tema del precariato resta sempre un argomento da risolvere: qual’ è il Suo punto di vista? Devono passare le cd. sanatorie ‘ope legis’ oppure si consente a tutti di partecipare ad una selezione che accerti le competenze e il merito, prescindendo dall’anzianità maturata nel fuori ruolo? E’ possibile che all’inizio di ogni anno scolastico si presenti sempre, puntuale,  questo problema irrisolto?

Il precariato è da sempre uno dei più grandi problemi della scuola e ha due principali risvolti: il primo riguarda l’incertezza e l’instabilità dell’insegnante mentre il secondo si riflette sulla discontinuità didattica per gli studenti. Il tutto a discapito della qualità dell’insegnamento. Sono stati proprio questi gli obiettivi dei due concorsi, straordinario e ordinario, ossia porre rimedio a questo enorme deficit e stabilizzare la classe docente valorizzando il ruolo e il lavoro degli insegnanti stessi. Ancora molto c’è da fare, me ne rendo conto, ma è stato un primo passo perché un paese che vive di lavoratori precari non ha futuro. 

La crisi pandemica ha prodotto ripercussioni negative nel funzionamento delle scuole durante il precedente anno scolastico. La chiusura degli istituti ha costituito un segnale allarmante e ha prodotto enormi disagi nell’utenza, tra gli insegnanti e nelle famiglia. Non sempre la DAD ha sopperito alla didattica in presenza. Inoltre – al Sud – circa il 30% delle famiglie non possiede un pc o un tablet e questo ha generato diseguaglianze. Ci sono ragioni strettamente didattiche per preferire il rapporto educativo diretto, è d’accordo? Come valuta l’introduzione delle nuove tecnologie in ambito educativo? Ad esempio in Finlandia da alcuni anni è stato abolito il corsivo per l’apprendimento della letto-scrittura (viene “tollerato” lo stampatello) : gli alunni imparano a leggere e a scrivere con il tablet  e poi lo usano nel curricolo successivo. Cosa pensa di questa scelta didattica? In Italia prevale una scelta più graduale, un mix tra didattica tradizionale e digitale. Non è rimasta favorevolmente impressionata dalla richiesta pressante degli alunni delle superiori che scendono in strada manifestando per un ritorno in classe? In fondo siamo abituati ad adolescenti che prediligono i social….

Circoscrivere la dimensione scolastica ad una dimensione intellettuale è sbagliato in partenza. La scuola forma l’alunno e lo vede crescere in primis come persona con una componente affettiva, emotiva, sociale e morale. Con questi presupposti, la didattica a distanza può essere considerata come uno strumento sussidiario ma non può sostituire del tutto la didattica in presenza. La didattica digitale però non va demonizzata, da questa pandemia dobbiamo anche trarne degli insegnamenti e tra questi rientra lo svecchiamento del sistema scolastico. La tecnologia fa parte della nostra vita quotidiana, quindi perché non farla interagire con la scuola? Un giusto rapporto tra le due modalità di insegnamento è l’obiettivo da perseguire. Se in un contesto emergenziale la didattica digitale ha assicurato la continuità dell’insegnamento, il distanziamento in aula e anche un alleggerimento del trasporto pubblico, in un contesto di normalità, soprattutto negli istituti superiori e universitari, se ne deve fare un uso complementare. Come lo smart working sta cambiando il mondo del lavoro, mi auguro che anche la scuola riesca a potenziare l’indispensabile didattica in presenza con quella digitale, magari anche prendendo spunto da esperienze positive di altri sistemi scolastici. 

Come valuta la figura istituzionale del Garante per l’infanzia  e l’adolescenza? Le sembra che le sue attribuzioni siano adeguate ai bisogni dell’utenza o che prevalgano ancora aspetti formali, non suffragati da una valenza decisoria e sostanziale?

I diritti dei più piccoli meritano un occhio di riguardo, ancora di più in questo delicato periodo storico. È così che inquadrerei il ruolo del Garante il cui lavoro e le posizioni espresse devono costituire un punto di riferimento autorevole per le forze politiche. Ne approfitto per augurare un buon lavoro alla nuova presidente Carla Garlatti, nominata lo scorso 13 novembre.

L’introduzione dell’educazione civica nei programmi (pur se con un orario ridotto a 33 ore annuali) potrà davvero costituire un valore aggiunto per consentire alla scuola di svolgere una funzione compensativa delle diseguaglianze sociali, della crescita del senso civico per tornare a parlare di doveri, oltre che di diritti?

L’introduzione dell’educazione civica nei programmi scolastici è senza dubbio fondamentale per creare nuove generazioni che siano cittadini del mondo. Far parte di una comunità non significa solo pretendere ma anche avere una responsabilità sociale che si accresce con un’educazione giuridico-economica, con una corretta informazione, avendo a cuore il concetto di “cosa pubblica” e avendo fatto propri i valori costituzionali ed europei. Ecco, l’educazione civica è ciò mancava alla scuola intesa come crescita e sviluppo personale, come formazione delle giovani coscienze in relazione al contesto storico sociale del nostro paese dove si sente sempre di più parlare di bullismo, cyberbullismo e discriminazioni.